25.11.2013
Ricette,
cuochi e ricettatori
di Franco De Anna
Ero un giovane insegnante quando la cultura
professionale mediamente disponibile nella scuola (certo non le avanguardie
professionali) fu chiamata a misurarsi, in una stagione di rinnovamento di
programmi e di didattiche, con la metodologia curricolare.
La didattica per obiettivi, le
metodologie del mastery learning, le valutazione “oggettiva” la
scomposizione e sequenzializzazione delle Unità Didattiche e molti altri
costrutti (fondamentalmente di origine behaviourista e di provenienza anglo
sassone) entrarono a fare parte del lessico quotidiano, animarono seminari e
convegni, richiamarono partecipanti a corsi di aggiornamento (sempre
animati da gran voglia di innovazione).
Ma la suggestione dell’innovazione professionale che dava spunto a tanti
richiami trovava significazione più profonda non tanto nella discussione
collettiva su “scuole di pensiero”, metodologie diverse, “scoperte” di
approcci che non avevano avuto fino ad allora grande cittadinanza nella
cultura scolastica italiana, sempre tributaria delle fonti idealistiche,
quanto dalla congiunzione con una fase di “ristrutturazione di significati”
complessivi che attraversava l’intero sistema di istruzione.
Tutto ciò avveniva in connessione con i programmi della scuola Media del
1979, attraverso i quali (con oltre un decennio di ritardo), il “sistema”
prendeva atto del mutamento “strutturale” realizzato attraverso la
scolarizzazione di massa e del “diverso significato” sociale che la “media
unificata” aveva progressivamente assunto rispetto allo sviluppo sociale del
Paese.
Grande passione e disponibilità, ma anche la tentazione implicita di
considerare tali strumentazioni tecniche, tali “attrezzi” nuovi che non
erano mai entrati nella borsa da lavoro dei docenti italiani, come le
“ricette” per risolvere i problemi della scuola e affrontare la sua
innovazione.
Naturalmente tale tentazione è deriva sempre presente: ogni “novità” viene
accolta sempre come ipotesi di “soluzione” di quanto prima non funzionava o
come risposta ad un bisogno prima insoddisfatto.
Ma c’è anche una componente specifica che riguarda la cultura professionale
tipica della scuola italiana. Il retaggio idealistico della sua ispirazione
di fondo (quasi un carattere di “lunga durata”…) aveva contribuito a
costruire un modello professionale della docenza assolutamente lontano e
refrattario a misurarsi con la “padronanza di tecniche”.
[Nel modello gentilano la sola formazione specifica per l’insegnamento era
prevista per i livelli elementari e delegata alla “versione professionale”,
di seconda scelta e residuale, dell’istruzione liceale, quale era
considerato l’Istituto magistrale, non per caso a durata ridotta e
terminale. Esistette per molti anni a livello universitario un “indirizzo
didattico” del corso di laurea in Matematica. Ma pure esso era considerato
una seconda scelta ed era nato e rimasto in vita prima e non ostante la
stagione crociana e gentiliana]
Per anni allora si discusse anche vivacemente su tassonomie, su sequenze di
unità didattiche, su “programmazione” curricolare… ecc.. Ricordate il
“sapere, saper fare”; con aggiunta successiva di “saper essere” (qualunque
cosa mai volesse dire…)? Un poco a disagio oggi a fronte dell’offensiva
culturale della importanza del “far sapere…”.
Impossibile non riandare con la memoria a tutto ciò, ascoltando discussioni,
seminari e confronti tra docenti, oggi, e sulle nuove “indicazioni”.
A prescindere dal valore delle idee e proposte dette e scambiate in tali
occasioni (sempre positive e ben vengano..), mi ritorna, (fastidiosa) la
sensazione del pericolo di considerare “nuove ricette” capaci di risolvere
(finalmente!) i problemi che finora non hanno trovato soluzione…
Basta tassonomie, segmentazione di obiettivi, unità didattiche, ecc… Oggi
finalmente abbiamo il lavoro “per competenze” e se diventiamo bravi a così
lavorare avremo finalmente risultati incoraggianti… Questa è la nuova
frontiera. Anzi: “traguardi per le competenze…”.
Abbondano, nel linguaggio usato, le metafore “geometriche”: verticale,
continuo, centrale, ciclo; ma anche “stradale”, come traguardo,
indicazione…Giustamente a segnalare la necessità di “percorso”. Ma quasi
senza chiedersi chi, come e perché “guida la macchina”.
L’enfasi sulle “ricette” e le “tecniche” nella formazione ha sempre questo
limite: dimentica e fa dimenticare che si tratta di “attrezzi del mestiere”
che dovrebbero popolare, numerosi e diversi, la “borsa da lavoro” del
docente e contribuire, ciascuno per quanto di appropriato (una pinza è una
pinza, non conviene usarla come martello, ma probabilmente avrò bisogno di
entrambi…), a costruire l’opera.
E’ una considerazione che, paradossalmente, proprio la storica e
stratificata insensibilità alle componenti “tecniche” del lavoro docente
(basterebbe considerare la formazione specifica iniziale e la sua storia,
passata e recente…), tende ad avvalorare.
Solo chi non sa usare martello e scalpello è portato a credere che basti
imparare a farlo per diventare, in automatico, dei Buonarroti…
Per effetto del medesimo paradosso culturale e professionale, la
insufficiente “padronanza tecnica” avvalora una deriva di “cosalizzazione”
pedagogica.
Alla pregnanza della ”relazione educativa” e dei
suoi specifici caratteri (relazione asimmetrica e dunque dolorosa,
contrassegnata dalla “clinica” nel senso di “cura di..”, “chinarsi su..”,
non di medicalizzazione; finalizzata alla affermazione della autonomia del
soggetto, non al suo aderire ad un idealtipo, per quanto ben definito e con
le migliori intenzioni… Di tutto ciò ho provato a dire in un intervento
precedente
Sistema istruzione e valutazione -
istruzione - valutazione - istruzione - scuolaoggi)
si sostituisce il “ricettario” dei nuovi costrutti.
[Sia ricordato en passant: i
programmi della Media del 1979 continuarono per quasi vent’anni ad essere
denominati “nuovi programmi”. Medesimo destino attende le “nuove
indicazioni”? E fino a quando? Già sono il prodotto di attesa di circa un
decennio…]
Oggi oggetto della tentazione/tendenza alla “cosalizzazione” pedagogica è
il costrutto (magico?) delle “competenze” esattamente come ieri erano il
“sapere, saper fare e…saper essere..”. Didattica “per competenze”…
valutazione delle “competenze”, finanche “certificazione” delle competenze.
Naturalmente il costrutto “competenza” ha un suo intrinseco interesse e non
si può che guardare con attenzione alla sua declinazione entro la scuola e
la Formazione. Ma tale attenzione non ci esenta (anzi…) al massimo di cura
critica e a non lasciarsi semplicemente andare al potenziale metaforico di
“nuove” parole”
Come già più volte richiamato in diversi
interventi on line (per tutti valga
Societ? della conoscenza? Realt? e
ideologie. - grande impresa - fiat | - scuolaoggi)
e in pubblicazioni (per tutti “Delle competenze” in Scuola Democratica n. 4
Febbraio 2012) “competenza” è costrutto che proviene dalla cultura di
impresa. La stessa elaborazione europea muove da proposte che provengono
dalla “Confindustria europea” (ERT European Round Table of Industrialists)
fin dalla fine degli anni ’80 (si vedano gli articoli citati).
La “competenza” rappresenta ciò che
del sapere, le conoscenze, le attitudini, le esperienze del soggetto può
divenire “valore di scambio” nell’impresa e sul mercato.
Per stare ad altra terminologia, sempre di origine economica, è il “capitale
umano” cioè ciò che può essere oggetto di valorizzazione (è questo il
“capitale”, non una semplice e indifferenziata “ricchezza”).
Nessuno scandalo pedagogico, naturalmente: è sempre stato chiaro che il
“sapere” declina anche un “valore economico”, condizionato dunque, oltre
che un valore assoluto e incondizionato. La cosa è divenuta progressivamente
più evidente, nello sviluppo storico, a partire dalla seconda rivoluzione
industriale con l’implementazione sempre più significativa di sapere e
conoscenze nella produzione materiale.
Dunque è bene se nel lavoro di formazione, anche nella scuola, si tiene
conto di tale categoria e si promuove un “meticciamento” di culture e
suggestioni. Purchè non si smarrisca l’avvertenza critica necessaria a
comprendere i limiti, il perimetro di validità e di uso pertinente di tale
categoria.
Ma ciò significa che tutto posso fare tranne che pensare alla categoria di
competenza e proporla come una “ricetta” capace di dare soluzione
all’impresa innovativa di cui la scuola ha bisogno.
La prima avvertenza balza agli occhi: se “competenza” ha a che fare con il
“valore di scambio” del sapere, appare evidente la cautela con la quale
applicare tale categorizzazione alle età più precoci dello sviluppo, quando
la dinamica del soggetto in crescita favorisce discontinuità e cambiamenti
anche rapidissimi.
Descriverne “le competenze” in quelle fasi potrebbe significare per esempio
“inchiodare” il soggetto ad una immagine presto obsoleta, e non comprenderne
le potenzialità di sviluppo.
Anche per tale motivo, le esperienze, i protocolli, gli strumenti di
rilevazione, descrizione, valutazione delle competenze sono particolarmente
evoluti proprio nell’impresa (applicati tuttavia in particolare per le
qualifiche di più alto livello) o nelle fasi terminali della formazione
professionale. La letteratura, anche internazionale, è abbondante in
proposito.
E, sempre per tale motivo, la “competenza” di un soggetto, della quale una
impresa è alla ricerca, corrisponde sempre alla “miglior prestazione” che
quel soggetto sa esprimere.
Ricordo fino alla noia un aforisma che spesso è richiamato in sede di
valutazione delle competenze nell’impresa: “è sempre possibile insegnare ad
un tacchino ad arrampicarsi sugli alberi, ma è meglio assumere uno
scoiattolo”. E ciò non implica giudizi di valore tra tacchino e scoiattolo…
semplicemente sanno fare eccellentemente cose diverse, e diversamente utili.
Appare così di tutta evidenza che, misurandosi con le “competenze” del
soggetto in formazione, ed in particolare mirando con attenzione alle sue
potenzialità (il soggetto in sviluppo..) la scuola e la formazione non
possano limitarsi a ciò.
La scuola “deve” misurarsi con il compito di insegnare al tacchino ad
arrampicarsi (cioè a misurarsi con qualche cosa di “diverso da sé”).
Non per farne uno scoiattolo, ma perché mantiene un riferimento essenziale
con il “valore assoluto” del sapere e non può limitarsi a declinare il suo
solo valore economico.
Se viceversa ci si limita ad assumere repertori e quadri di competenze come
“ricette” e traguardi, si compie proprio quell’opera di “cosalizzazione”
della pedagogia che a me pare il rischio più consistente: immaginare che vi
siano tecniche e strumenti “risolventi” della implicita dialettica della
formazione.
A meno di trovare “risolvente” (come accade in altri campi..) la semplice
assunzione di valore (ed è un valore certamente…) de “ce lo dice l’Europa..”
Mettere in valore ciò che viene dalla elaborazione europea significa proprio
non assumerlo come semplice ricetta “unificante”, ma come spunto per
costruire effettive “convergenze” nella realtà di cittadinanza europea. Non
“quadri” e “formule”, ma realtà di funzionamento dei sistemi formativi (per
stare a noi: ma ciò vale esattamente per i sistemi fiscali, per le politiche
di spesa sociale ecc…Non contano tanto i “parametri” quanto i reali processi
di convergenza…).
Che la deriva di “cosalizzazione” sia in agguato anche entro il confronto
culturale ampio e significativo che è in corso sulle “nuove” indicazioni, è
ben rappresentato dal fatto che proprio osservatori più attenti e pensosi
(cito solo Maurizio Tiriticco e Cinzia Mion) quando rammentano la
problematica delle competenze (avvalorandone il significato euristico,
specie l’amico Tiriticco), non possono non riferirsi ad “altro” pensiero
pedagogico, da Bruner a Vitgoskj, a Gardner…elaborazioni che precedono di
gran lunga le suggestioni delle competenze, ma al cui pensiero bisogna
ricorrere per inseguire un “significato” del termine “competenza”
riportabile in campo pedagogico. (Rimane il problema del motivo per il quale
percorrere tale tortuoso labirinto…)
Dunque meglio non scambiare una occasione di discussione con una
consultazione di ricette. O almeno tenere desta l’attenzione verso il cuoco.
L’affermazione che per la scuola (a differenza che nell’impresa) occorre
misurarsi con l’insegnare al “tacchino ad arrampicarsi”, rappresenta (nella
sua apparente crudeltà) il “cuore istituente” della relazione pedagogica,
non riducibile a “cosa”.
La formazione si misura sempre con il soggetto e non, come si continua a
ripetere con metafora geometrica, con la sua “centralità”; ma con la sua
irriducibile eccentricità.
Possiamo avvalorare il fatto che tale esplorazione si riduca alla ricerca di
una qualche “griglia di valutazione delle competenze” magari reperendola
utilmente in linea per conto del superiore Ministero Vigilante? (senza nulla
togliere ovviamente alla utilità di tale strumentazione… ma appunto tecniche
e strumenti..) Il compito che ci aspetta è assai più ampio…
In altra sede (si veda “Sono un portatore (sano?) di BES” in www.pavone
risorse.it) ho utilizzato il quadro presentato nelle Indicazioni per il
“profilo” dello studente alla fine del primo ciclo, come esempio di
modellizzazione idealtipica (di nuovo “una cosa”) sulla quale verrebbero
misurati “i traguardi” da raggiungere nella formazione di “quella” persona
concreta e reale (e in sviluppo) che interagisce con il docente nella
essenziale “relazione educativa”.
Non voglio qui riprenderlo (rimando al testo delle Indicazioni). Ma ritengo
costituisca una immagine di un preadolescente che nulla abbia a che fare con
la realtà, non solo del singolo (mai riducibile, appunto, nella sua
e-centricità) ma neppure di una assennata descrizione “media” delle nuove
generazioni che popolano quel livello scolare.
Ciò che voglio sottolineare qui è invece che si tratta (pur lontano dalla
realtà) di una sorta di “modello apollineo”. Che, a parte le approssimazioni
ricordate, trascura proprio ciò che nell’adolescenza e preadolescenza
caratterizza le dinamiche dei soggetti, e cioè la parte “dionisiaca”.
Dunque non vi è solo un difetto “sociologico antropologico” che non consente
di cogliere effettivamente una sorta di identità dell’adolescente di oggi;
ma una “parzialità” che sembra “voltare la testa” .dall’altra parte e non
“comprendere” (non misurarsi con..) fenomenologie che interagiscono
potentemente con gli apollinei processi di “acquisizione del sapere”.
E che il “lato dionisiaco” sia quello con il quale più inquietantemente si
misurano i docenti, sopratutto in quelle fasce di età, mi pare sia
esperienza reale dai più vissuta e problematica.
Ma le metafore geometriche mentre “coalizzano” la relazione educativa,
tendono ad espungerne il dionisiaco (certo non riducibile a geometrie),
insieme alle sue inquietudini che pure sono il vero cimento del lavoro del
docente.
Potrebbe semplicemente essere la conferma di una sorta di “pudore
ideologico” che appartiene alla storia stratificata della nostra cultura
scolastica. Ma nutre altri timori…
Per esempio che tutto ciò che non sia riconducibile al modello apollineo
smargini in BES… (ma allora siamo tutti portatori di BES; e l’apparente
allargamento delle intenzioni “inclusive” connesso ai provvedimenti del
Ministero sui BES, celi una pericolosa eterogenesi dei fini…..) e dunque
alimenti differenziazioni, selezioni, fino a medicalizzazioni che sono
spesso a loro volta iatrogene. Ma sono timori che confido rimangano in
quella dimensione di attenzione e non si trovino a misurarsi con tentativi
effettuali in quella direzione.
Dovremmo tutti ricordare che “l’eccesso” è parte costitutiva dell’assetto
dell’uomo, e che la formazione (scuola, famiglia, città…) deve proprio
misurarsi, prima di tutto, con quella componente antropologica
insopprimibile che è l’eccesso… Poi (e di conseguenza..) verranno le
competenze, le indicazioni, gli obiettivi…
Un invito ad utilizzare l’occasione della discussione/sperimentazione delle
indicazioni per scavare, per non fermarsi alla “cosa”, per reinterrogarsi a
fondo sul proprio lavoro a fronte di una deriva di “insignificanza” o di
accentuata difficoltà del lavoro della scuola.
Ma qui il ragionamento si chiude: il ricordo di altri momenti di confronto
generale su programmi “nuovi” e “nuove metodologie” (in sostanza i Programmi
della Scuola Media del 1979) torma utile a ricordare anche un altro
fondamentale ingrediente di quadro. Esattamente come allora la condizione
per condurre un confronto largo e non “ridotto” a tecniche e strumenti, sia
pure presentati come lidi di nuova produttività, è un “quadro di
significazione” capace di dare senso ad un processo innovativo che rintracci
diversi significati sociali, diverse funzionalità sociali riconosciute
socialmente alla scuola. (allora fu in sostanza il completamento di una
missione storica: tutti a scuola). Oggi?
Ed è questo il fronte di impegno vero e di vera sofferenza.