Progetto Storia del '900. Dibattito

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Don Pietro
Un sacerdote alle Fosse Ardeatine
di Grazia Perrone

 

"La memoria dell’abisso nel quale la superbia e l’odio hanno precipitato l’uomo ci diano la forza e la fede di costruire la pace. Mai più shoah, mai più eccidi".

Con questo messaggio breve ed intenso – già scritto nel registro di Auschwitz – il Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, ha commemorato il 56° anniversario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine.
In quest'occasione ha concesso la Medaglia d’Oro, alla memoria, a Don Pietro Pappagallo caduto il 24marzo 1944.
Alla cerimonia ha partecipato, concelebrando il rito religioso col sacerdote cattolico, il rabbino capo della comunità ebraica di Roma Emilio Toaff.
Sono stati commemorati, così come morirono, pregando insieme, Don Pietro e i cattolici con i martiri ebrei.
La concessione della medaglia d’Oro conclude la lunga e tormentata vicenda di Don Pietro che concluse il suo Calvario – iniziato il 29 gennaio 1944 quando fu condotto nelle segrete di Via Tasso in Roma – alle Fosse Ardeatine il 24 marzo dello stesso anno.

Chi era Don Pietro?

Della sua figura – Terlizzi 28 giugno 1888 - Roma 24 marzo 1944 – della sua umanità e del suo sacrificio si cominciò a parlare subito: già all’indomani dell’eccidio.

Il Don Pietro immortalato da Rossellini ed impersonato da Aldo Fabrizi nel film "Roma città aperta" (1945) con Anna Magnani è, anche fisicamente, riconducibile a Don Pietro Pappagallo.
Durante l’occupazione tedesca, dopo l’otto settembre, egli cercò, mosso da cristiana carità, di aiutare tutti coloro (soldati sbandati, partigiani, alleati, ebrei, ricercati a vario titolo dalle S.S. e dalla polizia fascista), che si rivolgevano a lui fornendo loro documenti e rifugio sicuro senza alcuna recondita finalità che non fosse quella dell’umana solidarietà.
Lo stesso, straordinario, amore per il prossimo lo contraddistinse anche nella prigionia al punto da privarsi (come riportato da numerose testimonianze) del misero pasto e delle poche sigarette ricevute per dividere il poco che aveva con chi, per calcolo o cattiveria degli aguzzini, non aveva ricevuto nulla.
Di lui Monsignor Gaetano Valente, che è stato suo compagno ed amico, ha scritto: "…uomo buono, sacerdote-apostolo della carità, che non faceva politica, ma cercava solo di dare ricetto agli sbandati, di aiutare i ricercati dai nazisti fornendo documenti falsi per mettersi in salvo. Fu da quella storia vera che nacque il film di Rossellini ‘Roma città aperta’. I fatti, i personaggi del film sono veri. Don Pietro dello schermo, interpretato dal noto attore Aldo Fabrizi, è Don Pietro Pappagallo, anche se nel finale è preso lo spunto dal martirio di un altro sacerdote, don Morosini, fucilato a Forte Boccea" (Don Pietro Pappagallo – un eroe, un santo. Libreria Moderna – Rieti- 1993 pag.18)
In questo libro, del prof. Antonio Lisi - che ha dedicato gran parte della sua vita con tenacia e passione per dare il giusto riconoscimento storico ed umano alla figura di Don Pietro, per far uscire il suo nome dall’oblio in cui era caduto, e che è il principale artefice dell’alto riconoscimento conferito al sacerdote dal Capo dello Stato – è ricostruita con minuziosa cura ed amore l’atmosfera familiare ed il grande senso d'umanità e di fiducia nel prossimo che hanno contraddistinto tutta la vita e la vicenda di Don Pietro.
A tale scopo particolare rilievo assume la testimonianza di Joseph Reider miracolosamente scampato all’eccidio.

Austriaco, medico e cattolico, Reider, per i tedeschi, è un disertore da fucilare.

Per l'autore, invece, è un "pacifista ante litteram, quando l’essere contro la guerra in un mondo che era tutto nella guerra e nell’odio, poteva costare la vita".( Antonio Lisi - op. citata - pag.29 )

Lo straordinario vissuto di quest’uomo meriterebbe un capitolo a parte: fedele alla sua formazione etica, culturale e al suo ideale di pace abbandonò l’armata tedesca. Arrestato fu condotto al carcere di Via Tasso: processato per diserzione fu condannato a morte.

Sopravvissuto all’eccidio delle Fosse Ardeatine ( più avanti la sua testimonianza ) fu ripreso mentre ancora echeggiavano gli spari nella grotta.
Nuovamente condannato a morte da Kesserling – comandante dell’armata d'invasione tedesca - fu liberato dal provvidenziale arrivo degli Alleati all’alba del 10 giugno 1944: lo stesso giorno fissato per la sua, seconda, esecuzione!

Qui di seguito la sua, straordinaria, testimonianza:

"Il 24 marzo, un venerdì, si aperse la porta della cella e venni riportato alla luce. Mi vennero tolti i ferri e fui condotto in un’anticamera alla presenza di un sacerdote: don Pietro Pappagallo. Questi mi rivolse la parola e mi benedisse con grande ilarità dei poliziotti Schneider e Rippkens. Indi venne il brigadiere Krausnitzer con una corda e legò la mano destra di don Pietro alla mia sinistra, poi, passato il cortile, fummo condotti in strada e fatti salire in un omnibus pieno di prigionieri.
Ci scambiammo degli sguardi muti coi compagni di sventura e mentre un poliziotto diceva all’altro: " Di costoro si farà del letame…" il furgone si mosse. Durante il tragitto, sebbene approfondito in tristi pensieri, riconobbi una parte della Via Appia antica: Don Pietro, trattenendo a stento le lacrime, recitava a bassa voce le preci. Passò certamente parecchio tempo, poi il carro si fermò. Discendemmo tutti e schierati a due a due procedemmo scortati da guardie delle S.S. bene armate. A circa duecento metri da noi un gruppo di prigionieri arrivato prima, stava entrando in una spelonca, seguito da un secondo e così via. Si trattava di generali, ufficiali, partigiani, franchi tiratori, carabinieri ed ebrei. La spelonca doveva essere già piena, perché ad un tratto ci fu un ingorgo. Io con don Pietro rimasi un po’ indietro, mentre gli altri si adunarono in un semicerchio. Sembra che alcuni, non ancora consci della sorte che li attendeva, se ne fossero accorti appena allora. Da principio si poteva percepire un lieve mormorio, indi sempre crescenti e più eccitati lamenti dei poveri diavoli, di null’altro rei che di amare la pace. Vicino a me stavano, oltre a don Pietro, col quale ero sempre legato, il colonnello Rampulla, il generale Simoni, l’avv.Martini, un giovane napoletano di nome Forti ed altri. Il semicerchio si trasformò lentamente in un gruppo sempre più compatto di gente ammassata attorno a me e a don Pietro. Non oso descrivere i visi supplichevoli e disperati, né ricostruire in pieno il momento tragico e crudele. Accennerò soltanto ad un colonnello che stava davanti a me, credo un certo Montezemolo, dal volto già gonfio per le percosse e i colpi ricevuti, con un’enorme borsa sotto l’occhio destro, il cui aspetto stanco ma tuttavia marziale ed eroico non poteva nascondere le passate sofferenze. Tutti avevano i capelli irti e molti erano incanutiti nel frangente per le perdute speranze, assaliti dal terrore o colti da improvvisa pazzia. In mezzo al frastuono udii esclamare con voce mesta e supplichevole: " Padre, benediteci!".

In quel momento accadde qualcosa di sovrumano: deve avere operato la mano di Dio perché don Pietro riuscì a liberarsi dai suoi vincoli e pronunciò una preghiera, impartendo a tutti la sua paterna benedizione.

Presso l’ingresso della grotta dovevano essere stati fatti già prima dei lavori di sterro, poiché nelle immediate vicinanze c’era della terra già secca che formava un muro. Dietro a questo c’era uno spazio, un praticello erboso cioè, che portava al disopra della grotta. Fui preso da una certa inquietudine quando credetti di scorgere nella configurazione del terreno un’ultima possibilità di salvezza. Poiché dopo la benedizione tutti si erano accalcati intorno a don Pietro, non fu possibile evitare una certa confusione che si ripercosse pure sugli organi di polizia. Approfittai del momento; con uno sforzo supremo saltai sopra il muricciolo di terra e arrampicatomi sopra l’antro mi lasciai andare giù rotolando in mezzo all’erba. Rimasto alcuni secondi senza far moto, mi decisi poi a scomparire dal sito. Tanto, non avrei potuto portare alcun aiuto a quei poveri diavoli…" ( Antonio Lisi opera citata pag. 35 e 36 )

Concludo citando ancora monsignor Valente: " ..la figura di don Pietro appare – nella ricostruzione storica dell’autore e nella testimonianza – come soffusa di una luminosa aureola conferitagli dallo stesso cinismo nazista, che lo scelse non a caso tra gli altri prigionieri per salvare l’esigenza formale di una assistenza religiosa ai morituri nell’espletamento della sua altissima missione di dispensatore del perdono di Dio. Ed è qui che si innesta la testimonianza….di un disertore nazista, l’austriaco Joseph Reider, dissociatosi dalle efferatezze germaniche, quando afferma che nell’atto di impartire l’assoluzione ai condannati si accorse che il suo polso sinistro, legato a quello destro di don Pietro, si era liberato all’improvviso consentendo al ministro del perdono di tracciare l’ampio segno di croce assolutorio e a lui di lasciarsi scivolare lungo il pendio del terriccio di risulta riacquistando la libertà." ( Don Pietro – un uomo, un santo – pag. 18 )

Ho voluto ricordare la figura di don Pietro, insieme ai suoi 334 compagni, perché non si dimentichi l’operato di questi Caduti: il primo in nome di una missione di fratellanza e di pace, gli altri per la libertà e la dignità dell’individuo.

Ricordarli, a tanti anni di distanza, vuol dire credere ancora in quei valori ed essere pronti a sostenerli con la stessa forza e lo stesso coraggio di allora.

Grazia Perrone

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