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Un dibattito doltralpe:
vi è nel mondo unindustria dellolocausto?
di Gianni Cimalando
Il 6 marzo di questanno nella sezione
culturale de La Stampa è comparso un articolo di N. Finkelstein, mutuato da Le Monde, nel
quale lautore in questione si difendeva dalle accuse che gli erano state rivolte da
più parti a proposito del suo libro "Lindustria dellOlocausto", proprio in quel
periodo pubblicato in Francia.
Ovviamente, ho letto larticolo e, costatato che
lautore faceva continui riferimenti alle accuse rivoltegli, nei giorni seguenti ho
continuato a scorrere le pagine culturali dello stesso giornale per verificare se, al fine
di completare il quadro informativo, sarebbero comparsi anche alcuni degli articoli cui
Finkelstein faceva riferimento.
Nulla di quanto da me sperato è accaduto e pertanto ho seguito unaltra strada: mi
sono procurato alcuni numeri di Le Monde relativi ai giorni in cui erano comparsi gli
articoli in questione ed ho comperato il libro nelledizione francese. Dopo averlo
letto, mi è parso opportuno darne notizia anche in questa rubrica e cercherò, di
seguito, di spiegarne le motivazioni.
Chi è interessato allargomento potrà pertanto trovare in questa sede una breve presentazione del libro e, alla fine di questa, avrà la possibilità di visionare (cliccando sui titoli) due interventi di storici che esprimono un diverso punto di vista in merito al contenuto del libro e la risposta di Finkelstein, appunto, ai suoi detrattori.
Nota: la traduzione dal francese, temo non impeccabile, è opera del sottoscritto, che si assume la responsabilità di eventuali errori interpretativi.Ha senso dedicare alcune pagine di questo sito al
libro di N. Finkelstein?
Pierre Vidal-Nacquet, come avremo modo di vedere più avanti, con la sua competenza di
storico e la sua autorità morale, raccomanda "il silenzio" su
unopera che egli giudica detestabile e della quale ha rifiutato la prefazione. La
postfazione di Rony Brauman non attenua del resto un malessere del quale sono
testimonianza le divergenze sorte in seno alla casa editrice che ha pubblicato il libro.
Di cosa parla Finkelstain, giovane politologo ebreo di New York, figlio di deportati e allievo di Noam Chomsky? Semplicemente osa sostenere una egemonia giudaica della memoria, rafforzata da una senso acuto per linteresse finanziario, il tutto sotto legida di quello che viene chiamato "il dogma dellOlocausto" (il termine "dogma", direttamente mutuato dalla letteratura negazionista, sta ad indicare che una verità ufficiale è stata stabilita una volta per tutte e che in suo nome viene impedito ogni ulteriore approccio critico alla questione).
Questa egemonia sarebbe dunque esercitata dalle
principali istituzioni comunitarie internazionali che avrebbero ricavato il maggior
profitto dalla Schoah.
Certamente, nella postfazione, Brauman insiste sul contesto americano e sottolinea che
questa "economia dellestorsione attuata da certe istituzioni
giudaiche
.resta prevalentemente un fenomeno doltre Atlantico"
Ma Finkelstein non dimostra alcuna esitazione quando deve superare il limite che sta tra
la critica alle pratiche del Congresso giudaico mondiale e dei gruppi di pressione
filo-israeliani degli Stati Uniti, e il gettare nel discredito mondiale comunità le cui
sofferenze non possono realisticamente essere stimate da alcuna amministrazione.
Parlare di "affabulazione dei sopravvissuti", di un "fraudolento
travisamento della storia"; vedere il "più grande ladrocinio della
storia dellumanità", non è privo di senso né di conseguenze.
Stesso discorso il qualificare dei "guazzabugli che ingombrano gli scaffali"
i libri che danno la parola a una memoria così a lungo e tanto dolorosamente negata. In
compenso, Finkelstein non esita ad affermare che "la letteratura negazionista non
è del tutto priva di interesse".
Guazzabugli da una parte, interesse dallaltra.
Certo, eliminare senza discussione una voce dissonante assimilandola ad un gretto discorso
antisemita, significa cedere alla confusione.
Ma una lettura attenta del libro di Finkelstein dimostra che largomentazione ha in
questo caso il compito di fiancheggiare il negazionismo, anche lui nato nella sfera
dinfluenza dellultra sinistra, dove la denuncia del Grande Satana americano e
del capitalismo mondiale va a braccetto con un evidente antisemitismo mascherato dalle
critiche allo stato di Israele.
Questa falsa dialettica, che consiste nel richiedere leliminazione dei supposti
tabù di cui noi saremmo le vittime, trarrà in inganno, purtroppo, una parte dei
potenziali lettori.
Di qui, la scelta editoriale di parlare del libro, per una sorta di messa in guardia
contro gli alibi ingannevoli di un nuovo antisemitismo.
Pubblicato nel luglio del 2000 in Inghilterra e
negli Stati Uniti, il pamphlet intitolato "Lindustria dellOlocausto"
ha finora suscitato uno scarso interesse nella comunità scientifica; al contrario è nata
una forte curiosità mediatica. In Italia, ad esempio, la stampa ne ha propagato
leco prima ancora che il testo sia disponibile in libreria.
Lautore del libro, Norman Finkelstein, 47 anni, insegnante di Teoria Politica a New
York, ebreo e figlio di deportati, aveva già pubblicato diverse opere, tra cui "Le
tesi di Goldhagen e la verità storica", nelle quali denunciava lutilizzo
ideologico e finanziario della Schoah da parte degli ebrei americani. Avendo però ora
letto il suo ultimo libro nelledizione francese, mi sono reso conto che il suo
intento non si riduce questa volta ad unoffensiva contro le cosiddette istanze
"comunitarie" (del resto molto criticate anche da numerosi ambienti ebrei
americani): infatti, ad uno sguardo più attento a questo attacco alla memoria contenuto
nelle circa 150 pagine del libro, si capisce che il significato più profondo è un altro.
"Sulla parete del salone erano appese delle fotografie della famiglia di mia madre",
ricorda lautore, rievocando limmagine dei parenti scomparsi e subito dopo
confida: "non mi sono mai potuto sentire legato a quei personaggi, (
) ad
essere sincero, non posso farlo nemmeno ora".
Questo profondo sentimento di estraneità di fronte ai morti ha come corollario un
radicale sospetto nei confronti di coloro che sopravvissero alla soluzione finale.
A più riprese lautore si scaglia contro quella che definisce "laffabulazione
dei sopravvissuti dellOlocausto". Secondo lui la motivazione di quelle
donne e di quegli uomini che reclamano giustizia è soprattutto di "ordine
materiale", il loro racconto dei campi non ha altro scopo se non il giustificare
"il racket delle riparazioni dellOlocausto", di cui le banche
svizzere sono state, sostiene Finkelstein, le prime vittime. Ecco allora "gruppi
formati da anziane donne ebree" o "da ebrei piangenti" che vanno
a gemere davanti alla commissione bancaria del Congresso americano; molti di questi
sopravvissuti non saranno degli impostori che "si sono costruiti un passato?".
Perché tale è, secondo Finkelstein, la funzione primaria del "dogma
dellOlocausto". Se questa "costruzione ideologica" non ha
che "un tenue legame" con la realtà, essa tuttavia rappresenta la
materia-base di una "industria" planetaria: di volta in volta in effetti,
banche svizzere e ditte tedesche sono state costrette a piegarsi sotto i colpi della
"macchina da guerra dellOlocausto". Da un lato questa "armata"
può contare "su una stampa infinitamente servile e credulona";
dallaltro essa può brandire la minaccia del boicottaggio economico attraverso
"la complicità del Congresso americano".
Allo stesso tempo questo insegnante che si colloca allestrema sinistra difende poi
con le unghie e con i denti il mondo delle banche svizzere ("facile preda")
troppo frettolosamente condannato nella questione dei conti "sommersi" e delle
transazioni in oro con la Germania nazista.
Ne consegue che, secondo lautore, le eventuali malversazioni finanziarie di quei
banchieri non sarebbero che piccolezze a confronto "dellindustria
dellOlocausto, fondata su una fraudolenta mistificazione della storia", che
praticando lo "sciacallaggio delle tombe" diventa in modo evidente "il
più grande ladrocinio della storia dellumanità".
Nonostante questo, secondo Finkelstein, è stato necessario attendere la fine degli anni
60 per assistere allemergere di questa "industria". Perché,
nel periodo della guerra fredda, gli ebrei americani ostentavano "una grande
indifferenza nei confronti del destino di Israele". Fieri del loro "stato di
servizio anticomunista" essi erano totalmente allineati sulle posizioni di un
governo preoccupato delle sue buone relazioni sia con il mondo arabo sia con i suoi
alleati della Germania dellEst.
Non è che dopo la guerra del 1967, quando Israele diviene "una testa di ponte
americana in Medio Oriente", che "le èlites ebree americane scoprono,
finalmente, il loro nuovo amico" e decidono di sospingere "la memoria
dellOlocausto al centro della scena".
Da allora "lindustria dellOlocausto" ha inizio e non cessa in
seguito di "aumentare le sue quote di produzione". Prontamente dotata di
una "burocrazia bel oliata" e di "un formidabile apparato
operativo", questa immensa macchina per estorcere denaro non doveva impiagare
molto tempo, secondo lautore, per trovare potenti strumenti di propaganda: musei
dellOlocausto, "pellegrinaggi verso i campi della morte" e altre
"operazioni di grande spettacolarità" orchestrate da una sequela di
istituzioni ben conosciute. Così Finkelstein può ironizzare su questo "affare di
famiglia" che sarebbe il Centro Simon-Wiesenthal, "celebre per le sue
esposizioni del tipo Dachau-Disneyland"
Non manca a questo punto "allindustria dellOlocausto" che un
vasto corpus teorico finalizzato a legittimarla. Da qui "il guazzabuglio che
ingombra oggi i ripiani delle librerie e delle biblioteche", insorge Finkelstein,
il quale non esita ad affermare che "la letteratura della soluzione finale"
rigurgita di "mistificazioni" e di "assurdità", mentre
"la letteratura negazionista non è priva di interesse".
Inoltre, secondo lautore, lOlocausto non serve solo a produrre denaro, ma
rappresenta anche "un alibi prezioso", "un grimaldello ideologico"
che permette di smontare ogni critica che ha come oggetto la politica israeliana nei
confronti dei Palestinesi. Ma, al di là della questione del Medio Oriente,
lOlocausto serve comunque a mettere in secondo piano "la sofferenza degli
altri", per esempio quella dei bambini iracheni, riguardo ai quali Finkelstein
afferma che lembargo economico ha avuto come conseguenza la morte di più di un
milione di loro, "ossia, come nel corso dellOlocausto nazista".
Allo stesso modo sarebbe a causa delle "assurdità dellOlocausto"
che sarebbe impossibile parlare del razzismo di cui sono oggetto gli Afro-Americani e,
ancora, "la discussione intorno al genocidio degli Armeni resta un tabù".
Si sarà pertanto compreso che il libro di N. Finkelstein non si concede alcuna sfumatura.
Proprio per questo, forse, nella postfazione delledizione francese, lestensore
di questa, Romy Brauman, si sforza lui di sfumarne i contorni collocandola nel contesto
della realtà americana. "Leconomia dellestorsione messa in atto da
certe istituzioni ebraiche americane (
.) resta un fenomeno largamente doltre
Atlantico"; "essa è stato più volte criticato senza reticenze da
personalità ebree in Francia". Allo stesso modo egli afferma che alcune ipotesi
di Finkelstein sono destituite di ogni fondamento (ad esempio la famosa "cesura"
del 1967) e che altre si rivelano semplicemente come "propaganda".
Ma allora non aveva forse ragione lo storico Pierre Vidal-Naquet, che di fronte alla
richiesta di scrivere una introduzione al libro ha rifiutato sostenendo: "la sola
cosa necessaria per questo libro è il silenzio".
Una documentazione superficiale, di Philippe Burrin, storico.
Un libro che va nella giusta direzione, di Raul Hilberg, storico.
Olocausto, lindustria dellestorsione, di Norman
Finkelstein