Direzione didattica di Pavone Canavese

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LAVAGNA SULLO SCHERMO
a cura di Paola Tarino

I BAMBINI IRANIANI CI GUARDANO

Prima serie: sguardi infantili dai film di Abbas Kiarostami

I bambini intervistati in Compiti a casa

Passando in rassegna gli innumerevoli frammenti che vanno ad incastonare i fotogrammi congelati in queste lavagne, mi sono più volte soffermata a contemplare gli sguardi dei bambini che numerosi popolano i film. Certi occhi tornavano con insistenza: quelli dei bambini iraniani. Capaci di bucare lo schermo, esplorati ed indagati, i loro visi s'imponevano al punto da sbigottire il mio sguardo impreparato a restituir loro la - per innocenza - più adeguata attenzione (persino un maestro come Akira Kurosawa ammise di esserne contagiato), quasi da farmi avanzare l'ipotesi di una particolare propensione da parte di registi come Kiarostami, Naderi, Makhmalbaf (padre e figlia) e Panahi a riprendere i bambini in modo così realistico e al contempo poetico.
Occhi bambini che scrutano paesaggi recanti segni di distruzione, colgono la bellezza di una natura che sembra sfuggire ai ritagli delle inquadrature e interrogano il mondo degli adulti con domande insistenti alla ricerca di tutte le possibili risposte agli eventi incrociati nel loro girovagare: i soli che si lasciano fotografare, mentre quelli dei grandi, la cui presenza è spesso rivelata da voci sempre più fuori campo, sono destinati a finire sempre più fuori scena.
Si direbbe che questo sguardo infantile diventi il mezzo per guardare il mondo, soprattutto il mondo dominato dalla mentalità degli adulti: il grado zero (per usare un'espressione cara a Roland Barthes) di questa visione si ritrova nella prima delle puntate che saranno dedicate ai film iraniani, che s'inaugura con la filmografia di
ABBAS KIAROSTAMI.

"Io cerco le realtà semplici, ma nascoste dietro le realtà apparenti. Al momento di fare un film io mi imbatto, a volte, in eventi e in relazioni che si svolgono al di fuori del mio tema principale, dietro la cinepresa, più interessanti e avvincenti del tema principale del film che si sta girando. Così avvincenti che mi viene voglia di voltare la cinepresa verso questi eventi" Abbas Kiarostami

 

FILMOGRAFIA


- Il viaggiatore, 1974
- Il rapporto, 1977
- Gli alunni della prima classe, 1985
- Dov'è la casa del mio amico?, 1987
- Compiti a casa, 1989
- Close-up, 1990
- E la vita continua ..., 1992
- Sotto gli ulivi, 1994
- Il sapore della ciliegia, 1997
- Il vento ci porterà via, 1999

(quest'ultimo vincitore del Gran Premio della Giuria alla 56a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia)

Kiarostami è inoltre autore di dieci cortometraggi e tre mediometraggi.

Kiarostami esordì facendo l'illustratore di libri per ragazzi ed il regista pubblicitario (girò oltre 150 spot in soli nove anni), fondò l'Istituto per lo "Sviluppo Intellettuale dei bambini e degli adolescenti", dove stabilì il dipartimento di cinema e produsse alcuni dei migliori film dei bambini in Iran.
Alcune curiosità biografiche possono spiegare le attenzioni prestate dal regista ai bambini, utili anche per comprenderne il ruolo giocato nei film: la sua ammissione di una carriera scolastica stentata sta forse alla base della generosa solidarietà che si viene a creare tra i banchi scolastici di "Dov'è la casa del mio amico?"; mentre alla sua infanzia solitaria e silenziosa ("Dalla prima elementare fino in sesta non ho rivolto la parola a nessuno. Proprio così, neanche una parola") fa da contraltare la loquacità di Puya in "La vita continua …", che trova un'espressione diversa nella laconica dovizia di informazioni date dal ragazzino del suo ultimo film: "Il vento ci porterà via".

Dietro un'apparenza di semplicità assoluta, in perenne compromesso tra libertà autoriale e limiti imposti dalla censura degli ayatollah, Kiarostami è abituato a lavorare con il minimo dei mezzi disponibili, in un paese pieno di problemi come l'Iran. Straordinario nel filmare frammenti di vita quotidiana e piccoli contrattempi del vivere, egli ingaggia soltanto attori non professionisti, in molti casi presi dalla strada, tanto che nelle sue opere troupe e gente del luogo finiscono per mescolarsi, diventando tutti attori, che recitano se stessi, tornando spesso sul set dove erano finite le scene del film precedente.

Proviamo a fare l'appello (in ordine di apparizione)
per chiamare i bambini dei film di Kiarostami

- GHASSEM

Ragazzo fanatico di calcio, protagonista del primo lungometraggio MOSAFER ("Il viaggiatore", 1974, tratto da una storia di Hassan Rafi'i), preferisce i giochi di strada ai compiti da eseguire a casa, e, quando viene a sapere che la squadra nazionale giocherà a Teheran, decide di affrontare il lungo viaggio, sfuggire ai parenti e alla scuola, orchestrare una svendita del proprio equipaggiamento scolastico per trovare il denaro necessario. Non bastando, si ingegna ad organizzare foto scolastiche per i bambini più piccoli, servendosi di una macchina fotografica rotta; giunge persino a truffare la buona fede dei compagni di squadra, che si vedranno privati delle porte con le reti trasportabili, svendute alla squadra avversaria. Per trovare la somma necessaria, Ghassem è insomma disposto a tutto, superando in cocciutaggine la già tenace ostinazione del giovane apprendista monaco del film "La coppa".

La sua poco eroica iniziativa lo porterà comunque ad un ironico finale: sfinito dal viaggio, si addormenterà poco prima dell'inizio della partita in un prato interno allo stadio …

Gran parte del fascino delle opere di Kiarostami sta nella sua capacità di filmare persone (soprattutto bambini) che parlano, si scambiano idee, raccontano di sé, vengono interrogati o devono rendere conto del proprio operato, che noi possiamo aver visto o meno.

Da: Il viaggiatore, Compiti a casa, Dov'è la casa del mio amico?

- AHMAD e MOHAMMAD REZA

Protagonisti di KHANEH-YE DOUST KOJAST?, ("Dov'è la casa del mio amico?", 1987)
Ispirato al poema del filosofo iraniano Sohrab Sepehri, il film va a scoprire un ragazzino di 8 anni, Ahmad Ahmadpur, che ha accidentalmente preso per errore il quaderno dei compiti a casa di Mohammad Reza Nematzadeh, un suo compagno di classe. Quest'ultimo, già punito con un'espulsione per aver fallito nelle sue prove scolastiche, non potrebbe svolgere il compito altrove (la consegna del maestro intima di fare i compiti sempre sullo stesso quaderno), così il giovane Ahmad si affanna per restituirglielo, recandosi nel villaggio vicino (siamo a Koker, nel nord del Paese) alla ricerca della casa dell'amico, anche se, lungo la strada, egli non ricorda dove in realtà l'amico abiti. Incrociando un labirinto di strette stradine, simili allo sguardo, senza l'aiuto degli adulti che, ostili e indifferenti, contrastano i suoi progressi ad ogni svolta, l'odissea del frustrato Ahmad arriva quasi a proporzioni mitiche; lo stile sottile, lirico e neorealistico, la recitazione convincente e il sensibile ritratto a tinte forti delle vite dei bambini rendono dono delle raffinatezze del regista. Non trovando l'amico, Ahmad eseguirà per lui il compito, al fine di evitargli una punizione: simpatica prova della solidarietà che può sorgere tra i banchi scolastici.
Prima tappa in questo dolce inizio di una trilogia non pianificata, il film venne premiato nel 1989 a Locarno.

- GLI STUDENTI della Shahid Masumi School

Intervistati in MASHGH-E SHAB ("Compiti a casa", 1989) contro un muro anonimo e privo di scritte, il loro batticuore è centrato sull'eccessiva quantità dei compiti assegnati a casa, sull'incapacità dei genitori analfabeti ad aiutarli e sulla competizione con i cartoons televisivi.
Nella memorabile sequenza di chiusura, la classe di ragazzini urlanti, ancora nervosa dopo lo schiaffo metaforico ricevuto dall'autorità di turno, ha bisogno di un amico che stia dalla loro parte anche solo per confrontarsi con la macchina da presa. Ancora si coglie la recitazione di un lungo poema proveniente dal cuore (trasmesso qualche mese fa da Rai3, Fuoriorario, in edizione originale, senza sottotitoli, ovvero in "farsi", l'antica lingua persiana).

Fotogrammi da E la vita continua ...

- PUYA PIEVAR alla ricerca di AHMAD e MOHAMMAD REZA
Presente in ZENDEGI EDA ME DARAD ("E la vita continua…", 1990)

Premio Rossellini al Festival di Cannes, è la consacrazione definitiva del regista; ancora idee ed emozioni, in bilico tra realtà e finzione. Nella storia: dopo il terremoto (nel 1990 un sisma devastante, in Iran, sempre nella zona di Koker, produsse cinquantamila morti), i protagonisti viaggiano attraverso uno straordinario, seppur devastato, paesaggio alla ricerca dei bambini interpreti del precedente film: "Dov'è la casa del mio amico?".
Lo spettatore si trova assiso sul sedile di fianco all'autista e il suo sguardo indugia un po' sulla strada e più spesso sul volto del conducente (che nella finzione recita la parte del regista stesso) e di suo figlio, che sono anche protagonisti, sottolineando la loro preminenza nel pilotare l'attenzione del pubblico. L'interno dell'abitacolo dell'auto è una sorta di mondo a parte, quasi una metafora del cinema stesso, mentre il finestrino, che separa e al contempo consente di aprirsi all'esterno, diventa una specie di diaframma attraverso cui la macchina da presa riesce a catturare le immagini della realtà.
Nel corso del viaggio la radio accesa segnala appelli (un'assistente sociale della Mezzaluna Rossa cerca persone disponibili ad adottare bambini rimasti orfani a causa del terremoto), indica interruzioni stradali o luoghi di raccolta delle provviste, creando gli stimoli adatti a far sorgere gli interrogativi insistenti del bambino (Cosa sono le provviste? A cosa servono le torri di comunicazione? Troveremo la strada? Dici che i ragazzi del film siano andati a vedere la partita a Teheran e perciò si siano salvati? Di che cosa erano fatte le loro case? Saranno crollate?).
Durante una sosta "pipì", Puya trova il tempo di catturare una cavalletta (l'attenzione del regista nei confronti degli animali e degli insetti è una costante): vorrebbe adottarla, prendersi cura di lei, farla diventare grande per darle la possibilità di migrare, affinché possa spostarsi da un posto all'altro, mangiare l'erba di un prato e poi cercarne altrove. Il padre lo costringerà a gettarla fuori dal finestrino, perché "le cavallette appartengono solo al deserto".
Il percorso stradale, a tappe forzate tra le macerie e le case distrutte, consente ai due protagonisti di interrogare i passanti (di cui non sempre riusciamo a scoprire il volto, tagliati da riprese ad altezza finestrino), mostrando loro le fotografie dei bambini che stanno cercando; di restare incolonnati per ore insieme agli autisti di camion sfiniti; di dare un passaggio al signor Ruhi che aveva recitato la parte di un vecchio nel film ("Che razza di arte è mostrare le persone più vecchie e più brutte di quello che sono? Se fai di un vecchio un giovane, questa è arte! Nessuno apprezza la gioventù prima di essere invecchiato. Nessuno apprezza la vita prima di essere morto. Se uno tornasse in vita dalla morte, certamente vivrebbe meglio"); di aiutare nel trasporto di bombole del gas presso le tendopoli; di incrociare un funerale; di incontrare altri ragazzini comparse del film precedente scampati per miracolo; di fermarsi in un villaggio per assistere altri giovani che tentano di piazzare un'antenna televisiva per poter vedere i mondiali ("Con tutto questo dolore è giusto installare un'antenna TV? Piango la morte di mia sorella e di tre miei nipoti. Ma cosa posso fare? La coppa del mondo si gioca ogni 4 anni, non possiamo mancarla!"), tutti animati da una cieca ostinazione: LA VITA CONTINUA, NONOSTANTE TUTTO, BASTA SOLO TROVARE LA STRADA GIUSTA ...
Nel finale vediamo la Renault gialla, ripresa dall'alto, trovare finalmente la strada verso Koker, imboccare l'ultima curva, ridiscendere, provare di nuovo a varcarla, accelerando al massimo ...
Il film termina senza raccontarci se i bambini di "Dov'è la casa del mio amico ..." verranno trovati, né se la loro casa sia rimasta in piedi. Occorrerà attendere il set successivo per notarli ancora tra la folla della troupe.
Kiarostami è abilissimo nell'intercalare i rapidi spostamenti dei suoi personaggi con le riflessioni dei medesimi: il fascino dell'operazione sta tutto nella rispondenza (o per contrasto nella non-rispondenza) tra i fatti visti e/o evocati con i resoconti e le interpretazioni.
Una scena memorabile mostra Puya intento a consolare - a modo suo - una madre, convinta che la colpa della morte della figlia sia da attribuire ad un castigo divino: "Dio non vuole uccidere i propri figli ..., è stato il terremoto ad ammazzarla. Consolati perché almeno tua figlia non dovrà più fare i compiti a casa, che sono tanti!". Al di là della spicciola filosofia infantile, mossa comunque da sincero spirito di cordoglio e non solo da intenti utilitaristici, resta aperto un enorme interrogativo: "Ma quanti compiti a casa daranno mai gli insegnanti iraniani, visto che questo cruccio, una sorta di leitmotiv in tutti i film di Kiarostami, minaccia come una spada di Damocle il cuore di tanti ragazzini!?"

- HOSSEIN e TAHEREH
Giovani attori di ZIR E DARAKHTAN E ZEYTON ("Sotto gli ulivi", 1994)

C'è una straordinaria fedeltà a se stesso, ma anche un pizzico di perversità in questo insistere di Kiarostami sulla gente e i paesaggi di Koker. Siamo ancora fermi al secondo film della trilogia, "E la vita continua ...", di cui la terza tappa, "Sotto gli ulivi", dilata all'infinito un dettaglio, una storia marginale. Sono passati sette anni dai tempi di "Dov'è la casa del mio amico?", nel frattempo ci sono stati terremoti, disastri, dolori e pazienti ricostruzioni. La vita continua, ma si confonde sempre più con il cinema ("Un film è verosimile e non un mucchio di bugie" diceva il signor Ruhi un film fa ...), anzi diventa cinema nel cinema.
Stavolta ci troviamo alle prese con un attore, che sta interpretando la parte di un regista che torna in un villaggio, dopo un terremoto, dove egli in precedenza aveva fatto un film, alla ricerca di due giovani per girare una scena proprio di "E la vita continua ..." (la tendenza meta si aggroviglia ulteriormente).
Hossein, il ragazzo prescelto, si trova a interpretare sul set la parte che da sempre vorrebbe recitare nella vita, quella del marito di Tahereh, la giovane di cui è innamorato. Tra ciak ripetuti all'infinito, battute sbagliate e rifatte, Hossein trova finalmente lo spazio per piazzare quella giusta, l'unica che veramente gli sta cuore: la sua umile e ostinata offerta di matrimonio. A quel suo amore non corrisposto saprà dare comunque le sue spiegazioni, pur continuando con insistenza il corteggiamento: forse la ragazza lo rifiuta perché è solo un povero carpentiere, di una classe sociale inferiore alla sua, oppure è il terremoto, che non soddisfatto di lacerare la terra, si diverte anche a sconquassare gli animi umani.
Quando il film nel film giunge alla sua conclusione, a Hossein non resta che inseguire la ragazza nell'uliveto: è la sua ultima occasione, fuori dalla scena, per tentare ancora di conquistarla. La macchina da presa li riprende in campo lunghissimo, riducendoli a due puntini che si allontanano nel verde. La giovane si ferma, sussurra qualcosa all'orecchio del ragazzo, che all'improvviso torna indietro, correndo follemente. Nessuno saprà mai cosa si son detti, neppure la telecamera.

- FAHRZAD

Il ragazzino guida di LE VENT NOUS EMPORTERA ("Il vento ci porterà via", 1999)

"È vero che un film senza storia non ha molto successo presso il pubblico, ma bisogna anche sapere che una storia deve fornire indizi e alcune caselle vuote. Queste ultime, come nelle parole crociate, devono essere completate dallo spettatore. Chi guarda, come un detective privato in un intrigo poliziesco, dovrà trovare l’intreccio" Abbas Kiarostami

Questo film, come tutto il cinema di Kiarostami, è pensato per chiedere allo spettatore di "completare" le storie, le possibili storie solo abbozzate. Un ingegnere arriva da Teheran in un paesino del Kurdistan iraniano, in una valle incantata, fuori dal tempo. Ad attenderlo alle soglie del film e del villaggio trova un bambino, Fahrzad, una guida attraverso la quale inferire gli eventi minimali, mai rappresentati. Impenetrabili.
Il bambino, oltre a spiegargli che il paese deve continuare a chiamarsi Valle Scura perché gli antenati hanno voluto così, nonostante sia caratterizzato dal nitore bianco delle case, lo accompagnerà lungo un percorso iniziatico, di cui all'inizio è dato sapere poco. Che sia un bambino ad accompagnare un adulto è del tutto coerente nella prospettiva di Kiarostami, poiché gli adulti del suo film precedente ("Il sapore della ciliegia") parevano essersi allontanati dalla bellezza e dalla semplicità del mondo. Per cui solo seguendo un bambino c'è una speranza di salvezza.
Scopriamo che l'ingegnere in realtà è un regista televisivo spintosi laggiù con l'incarico di riprendere le immagini di una cerimonia funebre, alle prese con un delicato problema: non c'è ancora il morto, o meglio la morta, un'anziana, che, secondo Fahrzad, avrebbe più di un secolo di vita, sempre in procinto di morire. Nell'attesa dell'evento l'ingegnere ed il ragazzino stringono un patto: nessuno al villaggio dovrà sapere il vero motivo della visita, camuffata dalla ricerca di un fantomatico tesoro, per non inquinare l'ospitalità degli abitanti, che in verità non sembrano turbati dalla sua presenza "spiante", né dalle sue continue peregrinazioni in auto.
La maggioranza delle inquadrature sono occupate da pareti esterne di case bianchissime, come uno schermo su cui nulla si proietta, squarciato da piccolissimi antri verso la vita che si può soltanto immaginare, al di là di quelle finestre da cui si riflettono ombre, che rimangono inconsistenti; eppure sarebbe facile accedere a quelle povere case, nessuno è diffidente o nega una tazza di te, addirittura il latte è gratis per l'ospite. Ma il regista-ingegnere, distratto dalla sua idea di quello che prioritariamente va colto nella vita, non è in grado di ricevere questi doni (non beve il te quasi mai, non riesce a completare i contatti fisici con gli interlocutori; colto da un ingiustificabile eccesso di nervosismo, giunge persino a cacciare il bambino latore del pane quotidiano), rifiuta gli inviti che gli spalancherebbero realtà sconosciute: è spostato in un altro universo, più vicino alla comunicazione fatta di telefonini che solo in mezzo ai morti di un cimitero consentono di cogliere la voce dei vivi ("Noi ci parliamo tanto bene così. Che ce ne facciamo del telefono?"), mentre il paesino, come se fosse protetto da una cupola, non è trapassato dalle onde elettromagnetiche.
Soltanto la POESIA apre brecce, in virtù del fatto che si occupa della vita e non della morte, come il cinico reportage che l'intruso dovrebbe accingersi a realizzare. É l'unico modo di accorgersi del mondo, che non può avvenire chiusi nella jeep che comprime l'immagine e pone un diaframma con l'esterno, come avviene durante i colloqui con il ragazzino attraverso un finestrino parzialmente rialzato, dove la gestualità è impedita al punto che non si stringeranno la mano per l'intervento di un'altra diavoleria: il solito telefonino.
Al momento dell'ingresso nel paese il bambino lo accompagna sui tetti, raggiunti dopo una prima arrampicata sulla rocca a cui sono abbarbicate le case. La predisposizione a spiare dall'alto ci proietta subito sulle terrazze più elevate e fatalmente le inquadrature dei primi approcci patiscono questo vizio voyeuristico che non porta a nessuna rivelazione, proprio perché non è un film di eventi e non vuole essere un documentario, però al termine comprendiamo anche noi che il taglio giusto sarebbe stato inoltrarsi nelle case e non sbirciare dall'alto; l'ingegnere fugge e per stizza scatterà foto a casaccio di una processione di donne dal finestrino dell'auto (il documentario appunto), colte all'alba di una luce bellissima che si solleva gradualmente dalle brume e quasi in piano sequenza propone i primi chiarori, rivelando il paese nella sua luce corretta, ma ormai tutti siamo coscienti che quell'atteggiamento non permetterà di rubare le immagini della vita, che trionfa sulla morte, la quale si può manifestare solo naturalmente e quindi neanch'essa è documentabile. Perciò pure il reperto ferale (un osso raccolto nel cimitero) viene gettato, come inutile simulacro insignificante.
Il viaggio sul motorino in compagnia del medico, l'unico che sa apprezzare la natura, offre l'opportunità a Kiarostami di lanciare un messaggio potentissimo sia per una società proiettata verso la frenesia di una soddisfazione sempre collocata altrove, sia per una comunità mistica, imbambolata dai premi dell'aldilà, di cui non si ha sentore in questo mondo, dove il bambino ad un'unica domanda non sa rispondere: "Cosa spetta ai buoni e cosa ai cattivi?", un premio ultraterreno non ha alcun senso in mezzo a quella armonia naturale non sconciata dall'intervento di Dio o dell'uomo. Ed il regista che gli suggerisce, confondendosi, il paradiso per i cattivi e l'inferno per i buoni, si troverà poi a pietire un giudizio e un'assoluzione dal bambino stesso: "Sono un uomo cattivo?". Di lì comincia a capire il suo essere fuori posto. Eppure continua a non poter interagire con quel mondo, riesce a mala pena a vederlo, ma non ad osservarlo, non incide nemmeno girando una tartaruga (simbolo di longevità, come la vecchia) sul carapace, perché si rigira, né tantomeno ad aiutare lo scavatore del cimitero rimasto vittima di una frana, al massimo può dare l'allarme, ma scatta qualcosa anche a livello di sonoro che si frappone con i rumori contingenti. Un disturbo forse dato dalla concitazione, comunque proveniente dall'esterno di quel mondo ad isolarlo ulteriormente. Una volta estratto né noi, né la cinepresa, né il regista vedremo in volto il lavoratore impegnato nello scavo; tutti i personaggi sono avvolti dall'anonimato, tranne il bambino-guida che si nega dopo la sfuriata, chiudendo l'unica possibilità di interazione, il maestro che obliquamente fa capire di essere stato messo a parte del segreto delle riprese alludendo a reperti archeologici di cento anni come la malata di cui si attende la morte (la malattia poi si rivela essere soltanto la vecchiaia, altro aspetto della vita precluso all'acquisizione cinematografica, perché è un concetto inesprimibile), egli parla poco, maieuticamente fa però rivelare al protagonista un vecchio episodio della sua infanzia, che rimarrà l'unico momento di godimento associabile alla figura del regista, infine il medico, riproponendo lo schema di molti film precedenti del corpus del regista iraniano, fatti di incontri edificanti e simbolici percorsi di crescita del protagonista che attraverso espedienti tecnici finisce con il diventare un nostro emissario.
C'è un ritmo che il film impone perché è l'unico modo per riabituarsi alla bellezza della vita: la pazienza di predisporsi all'accoglienza di un mondo diverso dall'artificiosità del nostro, ribadita nel finale dalle parole del medico che nega l'importanza di un altro mondo, quando si ha a disposizione questo, a cui si accede non soltanto riconoscendo qual è "l'albero solitario", ma anche qual è l'inquadratura giusta per accoglierlo nella nostra percezione e predisporci alla visione: "Vivi ciò che hai e abbandona le promesse".

Colpisce la radicalità con cui i personaggi bambini di Kiarostami muovono da un'idea (andare a vedere la partita della Nazionale a qualunque costo, restituire il quaderno e salvare il compagno dalla punizione, prepararsi in maniera ossessiva agli esami). Successivamente quegli stessi personaggi, di fronte alla necessità di spiegare il proprio comportamento consequenziale all'idea di partenza (o in contraddizione con la medesima), nello spiegare a un giudice, a un giornalista, all'autorità-maestro, all'autorità-regista, rivelano contemporaneamente potenza e limiti della parola. Potenza, perché le motivazioni addotte a spiegazione - per esempio del terremoto - si presentano come creative, poetiche, espressione di saggezza popolare o di inventiva geniale e quant'altro; ma al tempo stesso sappiamo che esse valgono solo per chi le pronuncia, hanno un carattere di autoconvincimento, autoformazione, sorta di via privata alla risoluzione dei conflitti interpersonali o sociali.

Cosa c'entrano i ragazzini allora? La vita continua, ma solo grazie alla loro presenza.

Sotto gli ulivi e il poster di E il vento ci porterà via

In viaggio verso Koker

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La diciottesima puntata ha preso in rassegna il film di Khyentse Norbu
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