PICCOLI
LAMA NELLA COPPA DEL MONDO
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Nella
settimana della visita del Dalai Lama (evento mondano al centro delle onorificenze
tributategli dalle autorità cittadine "di ogni tendenza" in osmosi sospetta)
una presenza decisamente insolita e maggiormente discreta ha fatto la sua comparsa sugli
schermi italiani: il film "LA COPPA", primo ed unico lungometraggio
girato in lingua tibetana, seppur giunto doppiato nella nostre sale.
Il regista buthanese Khyentse Norbu, considerato un lama reincarnato
("Si suppone che io sia la reincarnazione di un essere molto importante. Ma io
credo che, per la prima volta nella storia del buddismo, ci sia stato un errore di Karma!
I Tibetani si sentono sempre un po' a disagio quando spiego loro che un film può
raggiungere ben più di un individuo della loro costante ossessione nel voler costruire
monasteri!") ed uno degli interpreti più provocatori del buddismo contemporaneo,
ha scelto di ricorrere alla macchina da presa, dopo essere stato consulente religioso sul
set di "Piccolo Buddha" di Bernardo Bertolucci, per raccontare una storia
semplice, addirittura "vera" (come spiegano i titoli di coda), intenta a
mostrare come i monaci siano prima di tutto degli uomini, soggetti pertanto alle passioni
e alle frenesie dell'animo umano. |
Prodotto da una troupe internazionale
proveniente da Bhutan, Australia, Canada, Hong Kong, Francia ed America, il film è
interamente ambientato nel monastero indiano di Chokling, situato in una zona abitata da
rifugiati tibetani ai piedi dell'Himalaya.
Interpretata da numerosi monaci del monastero, intenti a recitare se stessi ("Per
poter mantenere gli impegni nella preghiera, i monaci si svegliavano alle 4 di mattina,
così da essere pronti per le riprese della giornata"), corre voce che l'opera
sia stata terminata nei tempi e nel budget previsti (è costata in tutto un miliardo di
lire) anche grazie al ricorso a pratiche divinatorie e alle presenza sul set di oracoli,
yogi ed indovini, per favorire le circostanze propizie alla produzione, benedire il primo
ciak, far cessare le piogge estenuanti o far tornare l'elettricità. |
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La sequenza iniziale
del film, accompagnata dal sottofondo musicale che agevola l'immersione nello scenario di
lì a poco svelato, predispone lo sguardo alla visione ed è al contempo "pars pro
toto" della valenza che il regista sembra attribuire alla sua messinscena e ai
contenuti da essa veicolati. Assistiamo infatti ad una lenta, meticolosa e delicata
preparazione di uno stoppino, che consentirà di accendere una candela, ossia di iniziare
il film, sprigionandone i bagliori, accentuati dalle dominanti rosse ed aranciate
degli interni, ripresi dalle tuniche dei monaci. Un invito ad aderire a quella lanterna
magica (considerata "forma d'arte pura"), per imparare gradualmente, nel
corso del film e con gli sviluppi della narrazione, a prenderne le distanze: una lezione
fondamentale del buddismo, da Norbu concepito come filosofia di vita e non religione in
senso stretto ("Il buddismo insegna il distacco dalle passioni terrene, ma per
staccarsi da qualcosa bisogna prima essere attaccati. Considerare il buddismo una
religione equivale a considerare il calcio come una religione: sono atteggiamenti
sbagliati"). |
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Monastero tibetano in esilio, 1998
Scorgiamo monaci intenti nelle loro occupazioni quotidiane, scandite dal suono del gong:
le abluzioni, il bucato, le pulizie, le preghiere, le commissioni con la bici, i giochi
dei più giovani in cortile, intanto la macchina da presa passa in dissolvenza
dall'inquadratura di una statua a quella di una lattina di coca-cola (gettata sul
pavimento, raccolta e messa in mano all'indovino perché provveda a fare una
"predizione per i ragazzi"), mostra le tifoserie graffitate sul muro o i poster
dei calciatori appesi in camera, inquadra i bigliettini che riportano i risultati delle
partite che Orgyen, il piccolo apprendista lama, scambia con i compagni durante i rituali,
sotto l'occhio vigile di un monaco più anziano, addetto alla loro educazione secondo i
dettami della tradizione.
Il giovane, fiero di indossare sotto il saio la canottiera gialla che riporta il numero
(9) ed il nome del suo adorato campione (Ronaldo: un altro con la testa rapata, pur non
essendo monaco), non vede l'ora di uscire di nascosto dal monastero per poter assistere -
previo pagamento - alle finali dei mondiali di calcio alla tv del villaggio vicino,
sperando nella vittoria della Francia, nazione da sempre amica del Tibet.
Un taxi malridotto arranca lentamente lungo la strada del monastero, dal suo interno
fuoriescono due giovani, Palden e Nyima, anch'essi tibetani, spediti clandestinamente in
esilio dai loro parenti, nella speranza di essere ammessi alla vita monastica, lontani da
ogni influenza cinese. Saranno affidati alle cure di Orgyen e di un altro compagno, che
insegneranno loro le regole del convento, ma anche quelle del calcio, in una frenesia che
aumenta con l'avvicinarsi della fatidica finale: un'onda magnetica trepidante capace di
influenzare la comunità intera. Persino Geko, il superiore del monastero, non potrà far
altro che assecondarla, accettando la proposta dei giovani (si rende conto che diventa
difficile mantenere la disciplina quando "i rappresentanti di due stati vicini
lottano per il possesso di una palla e per guadagnare una coppa"): la finale
sarà trasmessa via satellite, attraverso un parabolone issato sul tetto del monastero, ma
proprio nel momento in cui il sogno sembra realizzarsi ed il pallone entrare in rete,
notiamo Orgyen eclissarsi, distaccarsi, interessato ad altro evento ..., di cui non mi
sembra corretto fare lo spoiler, per non sciupare la poesia del finale, comunque
lasciato aperto.
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Solo
qualche notazione: un episodio gustoso, uno dei pochi in grado di spezzare il ritmo dei
rituali a cui lo sguardo si è ormai abituato, mostra i giovani davvero solidali nel
disperato tentativo di fare la colletta per raggranellare la somma necessaria al noleggio
dell'apparecchio televisivo. Nonostante la circostanza sia futile, a tratti divertente, si
avverte la presenza della comunità, "l'abitare" il convento con se stessi e gli
altri da sé, misurandosi con un sogno, a cui aderire per il tempo di una partita, che ha
una durata prevedibile (al massimo si va ai supplementari), ma una particolarità unica:
si gioca solo ogni quattro anni ed allora non si può proprio perderla, costi quel che
costi! (la prossima lavagna ne mostrerà un altro esempio, ancora più sofferto)
Pur essendo semplice e a tratti didascalico, il film risulta efficace perché spogliato
dal solito misticismo greve che spesso permea le cinematografie che trattano temi
analoghi, in più rimanda - a modo suo - ad un dramma autentico, quale quello
dell'occupazione cinese del Tibet ("Questione dolorosa, per la quale non c'è
altro da fare che renderla pubblica"), tra anziani che sognano di potervi tornare
(per questo tengono i bagagli pronti a portata di mano), e giovani che non si fanno
problemi a lasciarsi contaminare dalle mode occidentali (il giovane Jamyang Lodro,
l'interprete di Orgyen, in cambio della sua prestazione, ha ottenuto un viaggio premio a
Disneyland e non se l'è fatto dire due volte: ci è andato di corsa!). In fondo questi
giovani, pur destinati a confrontarsi con il proprio destino di futuri lama, non fanno
altro che assomigliare a tutti gli altri ragazzi della loro età. Per fortuna
, vien
da dire, anche se resta sempre il sospetto di trovarsi di fronte ad una delle tante facce
del mondo globalizzato. Di certo i piccoli lama sanno conservare almeno un'ora e mezzo al
giorno per la meditazione, mentre noi ne occupiamo di più per navigare in Internet! |
* Gli appassionati di calcio non potranno non notare
un errore vistoso: nella partita Italia - Francia sono stati inseriti rigori appartenenti
in realtà ad una partita precedente: quella che permise il passaggio della Francia al
turno per arrivare alla finale. Per ragioni di costo il produttore non acconsentì di
correggere quella svista, scusandosi in seguito: "Non poteva immaginare che l'opera
sarebbe circolata con successo in tutto il mondo!" |
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