AMERICAN
HISTORY
ovvero
ritratto di una generazione alle prese con la "scuola della vita"
Raccontare
l'ultradestra americana, ovvero il fenomeno delle bande giovanili degli Skin-heads e dei
violenti naziteppistelli, mostrandone altresì i diversi volti della "scuola della
vita" (quello del branco, familiare, scolastico e carcerario), non è impresa facile
e, toccando una materia così esplosiva, spesso si fa in fretta a cadere
nell'approssimazione, nella retorica, o al peggio nell'affresco didascalico e nella
sociologia d'accatto.
Non si può dire che American History X sia totalmente esente dal correre tale rischio, ma il fatto che riesca a
mantenere alto l'interesse dello spettatore, consente di perdonargli qualche scivolamento
nella superficialità e talvolta nella scarsa credibilità di certi passaggi repentini dei
due protagonisti da uno stato all'altro (dai cattivi ai buoni, da un'influenza negativa a
quella redentrice e salvifica), per apprezzarne il coraggio e il valore di testimonianza,
compresa la voglia di portare al centro dell'attenzione temi scottanti, quali
l'intolleranza, il razzismo, la pretesa supremazia del "white power", attuali
più che mai un po' ovunque in questo mondo globalizzato. Uscito negli Stati Uniti due
anni fa, solo adesso appare nella programmazione italiana estiva; girato da un regista,
Tony Kaye, che proviene dal mondo della pubblicità, come denunciato dall'uso sapiente
della fotografia, dal taglio delle immagini, dall'attenzione ai dettagli, dalla profusione
del rallenti, a tratti soffre di quest'attenzione all'immagine patinata: ad esempio le due
docce con le gocce che piovono al rallentatore sul corpo sconciato dalla svastica tatuata,
una prima volta preludono al castigo della sodomia da parte dei suoi stessi camerati e una
seconda alla catarsi finale, richiamano entrambe più innocui spot di shampoo. |
|
Il
regista sceglie di radiografare il microcosmo di una piccola località balneare della
California, Venice Beach, offrendone un ritratto sinistro ed istruttivo, che permette
proprio di rievocare due episodi di cronaca recente: nel weekend del 4 luglio scorso un
ragazzo di 24 anni, legato alla razzista Chiesa del Creatore, ha attraversato
Indiana e Illinois, sparando contro neri, asiatici ed ebrei, ammazzando due persone e
ferendone una decina; il 7 agosto, in un'altra località californiana, un uomo armato di
fucili e pistole, facente parte di un'organizzazione neonazista antisemita dell'Idaho (l'Aryan
Nations), ha fatto irruzione nel North Valley Jewish Community Center, uccidendo una
centralinista, un dirigente, tre bambini ed un postino.
All'uscita
del film, scoprendo che la distribuzione italiana ha scelto di vietarne la visione ai
minori di 18 anni, non comprendendo le ragioni censorie, si resta alquanto indignati,
perché di fatto si impedisce ai giovani destinatari dell'opera di poter fruire di
quest'occasione di dibattito cinematografico, che a modo suo tenta di illustrare ed
argomentare il background culturale, che sta alla base del contesto sociale, in cui si
radica la violenza della supremazia razzista. Un vero peccato: avrebbe aiutato gli
adolescenti a capire episodi come quelli citati, ormai all'ordine del giorno nei
telegiornali e sulla carta stampata.
La
trama si può riassumere in due righe: due fratelli filonazisti (il maggiore, Derek
Vinyard, interpretato dal bravissimo Edward Norton, la cui svastica tatuata sul petto non
può non attirare l'attenzione: una sorta di fiore all'occhiello; il minore, Danny,
teneramente recitato da Edward Furlong) si allontano dall'organizzazione: il primo
attraverso l'esperienza del carcere, il secondo grazie all'esempio del fratello. Ma alla
semplicità del contenuto fa da contraltare una complessa struttura narrativa ed un ricco
impianto registico.
Il filo rosso che cuce l'intero sviluppo narrativo del film è infatti rappresentato dal
racconto del fratello minore, il cui sguardo, costantemente "smarrito e perso nel
vuoto", è cifra simbolica dello spaesamento di una generazione sbandata, figlia
della povertà e dell'ignoranza, educata alla dura legge della strada, che porta i giovani
di uno stesso quartiere, appartenenti ad etnie ed ideologie differenti, a contendersi il
territorio (giocandoselo a basket), per occuparlo, esserne i padroni e stabilire chi
potrà restare e chi dovrà andarsene, in quanto perdente, diverso e pertanto inferiore.
La voce over di Danny è impegnata a rievocare i fatti che hanno portato
all'incarcerazione del fratello (condannato a tre anni di prigione per aver ucciso due
afroamericani che volevano rubargli l'automobile, gli stessi che avevano perso il
territorio nella partita di basket), di cui si sente in parte responsabile: è lui ad
accorgersi del furto e ad avvisarlo, ma è anche lui, unico testimone dell'efferata
brutalità con cui il fratello si accanisce con pugni e calci su uno dei neri non ancora
morto, a scrivere nella tesina scolastica: "Se mi avessero chiamato a
testimoniare, gli avrebbero di sicuro dato l'ergastolo!".
Il suo racconto, che dura un'intera giornata di veglia (dai cessi della scuola una mattina
a quella successiva nello stesso luogo), si articola attraverso il dipanarsi di flash-back
in bianco e nero alternati a scene a colori, che entrano a far parte di un secondo livello
narrativo, affidato in questo caso all'elaborazione della tesina che il ragazzo deve fare
per poter essere riabilitato a scuola.
Il suo professore di lettere (che in seguito scopriremo non solo essere ebreo, ma
emotivamente partecipe alla vita della famiglia) vorrebbe espellere questo giovane allievo
dal liceo, reo di aver presentato provocatoriamente un tema su Mein Kampf, di
fronte alla richiesta di consegnare un elaborato dedicato ad un difensore dei diritti
civili.
Il preside, che era stato a suo volta insegnante del fratello maggiore, decide invece di
inventare per lui un corso di storia personalizzato (da qui deriva il titolo del film),
per offrirgli una possibilità, che passi attraverso la rilettura degli eventi.
"É un ragazzo confuso e abbraccia idee insane. Come le ha imparate, le può
disimparare! Il fratello l'ha influenzato, ma io non getto la spugna. Sarò io il suo
insegnante di storia
", dirà il preside illuminato al professore
rassegnato.
Il preside, che il padre dei ragazzi non ha remore a definire "un insegnante
manipolatore, un falso bigotto ed uno zio Tom ipocrita" - uno dei flash-back in
bianco e nero lo mostra ancor vivo, intento ad impartire durante il pranzo questa lezione
di intolleranza ai figli, è lo stesso che visita Derek in carcere (luogo dove il ragazzo
capisce che "il nero stavolta è lui"), per portargli il conforto dei
libri, aiutarlo, non senza condizioni (il prezzo sarà la non fuga e l'assunzione di
responsabilità nei confronti del fratello), e soprattutto fargli confessare che la scelta
fatta non gli ha reso la vita migliore.
Nella sua seconda tesina Danny dovrà parlare del fratello ("La gente mi guarda e
vede mio fratello
", scriverà all'inizio), coglierne le gesta demenziali e
violente, ammettere la fascinazione subita, seguirne le evoluzioni e i cambiamenti di
prospettiva e sostituirsi nel castigo. |
|
Facendo
interagire il passato con il presente ed il futuro, recuperando sulla base dei flash gli
episodi significativi, incastonando al punto giusto i diversi tasselli che regolano il
complesso sistema delle relazioni tra le persone, sapientemente dosando le attese del
pubblico e rivelando gradualmente i dati, come si trattasse di un'indagine maieutica,
Danny riesce finalmente a dare un senso alla realtà da lui stesso esperita. Significativo
è il processo di montaggio adottato per introdurre i fatti rievocati: si incastrano nella
storia con un percorso a ritroso alla ricerca del momento preciso, in cui tutto cominciò
a cambiare. In questo modo si affacciano dapprima i ricordi più recenti con una valenza
di tessere di un mosaico che si va delineando, per poi fare emergere la lezione paterna di
razzismo, che è l'evento più lontano nel tempo, svelata come chicca finale e con
l'introduzione di Danny stesso, che finalmente rivela di aver individuato proprio in
quell'occasione l'inizio di tutto: una banale paternale ha creato danni irreversibili.
Si può dire che, assolvendo al compito scolastico della stesura
della tesina riprodotta dall'impianto del film stesso, il fratello minore applichi una
procedura "evenemenziale": isola singoli fatti storici a partire da un
evento illuminato dalle conoscenze relative al passato, un particolare metodo di
ricostruzione storica che finisce per smorzare anche la carica di violenza, fisica e
verbale, contenuta in American History X. Evidentemente non era interesse del regista
documentare un mondo di violenza, quanto piuttosto capire le motivazioni, tanto che lascia
spazio anche all'esibizione di farneticazioni: l'esempio mistificante della ricostruzione
del caso Rodney King è una dimostrazione dei condizionamenti mentali ed una
documentazione dell'interpretazione distorta della realtà, derivante dalla frequentazione
dell'ideologia nazista.
L'unica sequenza (terribile per recrudescenza, intolleranza, rifiuto
del confronto: in una parola per il nazismo espresso nella sua forma meno equivoca) dove
si avverte una carica di violenza reale è quella che mostra il fratello maggiore
schiaffeggiare la sorella, la sola (a differenza di altre decisamente più brutali) a non
essere ripresa al rallenti. La scelta di ricorrere all'uso del rallentatore,
esplicitata dal fatto che il racconto avviene attraverso l'interpretazione offerta da
Danny, impegnato ad elaborare la propria tesina, rappresenta la cifra stessa della
rimeditazione, a cui siamo invitati anche noi spettatori. |
Lo scrittore uruguayano Eduardo Galeano,
invitato di recente ad un convegno a Cernobbio dedicato agli Scenari di oggi e di
domani per le strategie aziendali, nel suo intervento, intitolato "Domande che un
signore beneducato non dovrebbe fare", offre una spiegazione interessante del perché
il mondo globalizzato globalizzi la cultura della violenza, che può gettare un fascio di
luce ulteriore alle tesi di questo film, adattandosi al finale, che mi permetto di svelare
solo indirettamente: "La guerra in Jugoslavia durava già da un mese, quando ci fu
la tragedia della scuola di Denver, nello stato nordamericano del Colorado. Il
vicepresidente della nazione, Al Gore, pronunciò un discorso al funerale dei dodici
studenti e un professore crivellati di colpi da un paio di ragazzini impazziti.
Gore nel suo discorso parlò contro la cultura della violenza, ma non annunciò che gli
Stati Uniti smetteranno di fabbricarla. Il Paese più invidiato e il più imitato del
pianeta, il modello globale, è quello che produce e consuma maggior violenza: vende la
metà delle armi che il mondo compra e vende quasi tutto il sangue che cola sugli schermi
del cinema, dei televisori e dei computer. Cultura della violenza: i suoi abitanti
posseggono una tale quantità di armi da fuoco, che statisticamente quasi ogni cittadino,
escludendo i bebé, ha un'arma. Cultura della violenza: nel budget, previsto dal
presidente Clinton per l'anno prossimo, le spese militari sono otto volte maggiori di
quelle per l'istruzione, nove volte maggiori di quelle per la sanità e undici volte
maggiori di quelle per la giustizia. Cultura della violenza: alla fine dell'anno scorso,
quando scoppiò la seconda guerra in Iraq, l'improvvisa domanda di missili fece lavorare
giorno e notte l'industria degli armamenti e anche le fabbriche di giocattoli. Cultura
della violenza: quel Natale il missile fu uno dei giocattoli più richiesti dai bambini
del mondo.
Quando ci fu la strage di Denver, il presidente Clinton accusò la televisione, il cinema
e i videogames. E un gruppo di psichiatri, allarmati dalla frequenza con cui si verificano
uccisioni nelle scuole e nei collegi nordamericani, consigliò ai genitori di insegnare ai
figli la differenza tra finzione e realtà.
Finora, che si sappia, nessun genitore è stato in grado di compiere una prodezza
simile" (dall'articolo di Galeano, pubblicato sul quotidiano La Stampa, venerdì
3 settembre 1999). |
|
|