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“La libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione” G. Gaber
(15.11.2013)
Il digitale
e l'organizzazione della scuola
Franco
De Anna
In qualunque impresa, tecnologia e
organizzazione si tengono in una dialettica stretta. Non in termini
deterministici: la tecnologia “disponibile” per i processi produttivi lascia
sempre almeno un grado di libertà (almeno uno) dal quale dipende la sensata
ri-organizzazione dei processi.
Un grado di libertà alla “scelta politica” che deve esplorare potenzialità e
convenienze dell’innovazione e i suoi riflessi sia sulla qualità del “prodotto
finale”, sia sulle relazioni di lavoro nell’organizzazione rinnovata.
La scuola, intesa come l’organizzazione dei processi di insegnamento e
apprendimento, non si sottrae a tale a tale problematica.
Le numerose riflessioni sul tema che vengono pubblicate su queste pagine,
rispetto alla diffusione delle TIC nella didattica, lo propongono come segnale
di una “crisi storica” e di una svolta, anche di paradigmi di pensiero, che essa
pone all’ordine del giorno: come affrontare il “passaggio” che la stessa
diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione delineano
come possibile/necessario alla ri-organizzazione dei processi di apprendimento e
dunque del sistema di istruzione.
Nessun automatismo come premesso: la tecnologia fa emergere, come attraverso una
lente di ingrandimento, l’obsolescenza di un modello organizzativo che da tempo
ha segnalato l’esaurimento della sua “funzione storica” esercitata positivamente
in altra fase, quella della sfida primaria del realizzare l’istruzione per
tutti.
Garantire il mantenimento di tale sfida storica significa oggi “cambiare
paradigma organizzativo” utilizzando sensatamente le risorse che la “rivoluzione
microelettronica” ci mette a disposizione.
Alcune notazioni che emergono direttamente dall’esperienza.
Rimando, per un approfondimento sul tema al mio ultimo contributo (“Ancora sulla classe digitale”). Qui mi limito ad alcune notazioni aggiuntive che attengono alla organizzazione dei processi di insegnamento e apprendimento
1.
La “rivoluzione microelettronica” ha, dapprima
lentamente, oggi tumultuosamente e clamorosamente, decostruito “l’enciclopedia”.
Cioè l’ordinata tassonomia (e gerarchia) del sapere che l’istruzione aveva (ha)
la funzione sociale “specializzata” di riprodurre. (Il curricolo nella accezione
generica e non “metodologica” del termine).
Oggi la sfida è organizzare un “curricolo senza enciclopedia”. Se si vuole una
diversa ricombinazione in chiave formativa (altro aspetto della “mediazione” di
cui sopra) di epistemologia e di ermeneutica. A partire dalla considerazione che
i circuiti di produzione e riproduzione dell’informazione e dei saperi hanno a
disposizione una “potenza strumentale” che toglie “centralità” all’istruzione
formale (quella dei “sistemi”) nella riproduzione del sapere.
E’ evidente che un “curricolo senza enciclopedia” decostruisce innanzi tutto le
tassonomie delle specializzazioni e delle ripartizioni dei saperi, delle
discipline e dunque anche (e soprattutto) degli stessi “profili classificatori”
delle competenze dei docenti.
Quanto a dire del “repertorio classificatorio” che sta alla base dei carattere e
delle relazioni del lavoro che anima l’organizzazione della scuola (classi di
concorso, cattedre, durate degli insegnamenti, gerarchie “implicite” che operano
entro apparenze ugualitarie).
2.
Nelle esperienze in corso di uso quotidiano ed
intensivo delle TIC nella didattica e nella disponibilità individuale e
collettiva delle attrezzature connesse (dalle LIM in connessione ai net e
notebook, alle diverse interfacce grafiche, sonore, ecc..) ciò emerge con
immediata evidenza.
Se si osservano sia i processi (la didattica in atto) sia alcuni “prodotti”
legati a tali esperienze di insegnamento e apprendimento, risulta assai
difficile se non impossibile “classificarli” in termini coerenti con i repertori
tradizionali della tassonomia delle discipline.
La “classificazione” tradizionale risulta del tutto artefattuale rispetto alla
realtà di tali processi/prodotti e ne destabilizza i corollari: la
“responsabilità” professionale specifica tra i diversi docenti disciplinari, la
ripartizione dei “tempi di insegnamento (le ore di lezione diversamente
distribuite), la “corrispondenza” tra la competenza reale espressa dal docente
nel suo lavoro concreto e quella “formale” definita nel profilo della sua
“classe di concorso”.
Elemento cruciale investito da tale decostruzione è l’attuale cosiddetta
“collegialità” che, quale che ne sia la semantica reale declinata, è formalmente
enunciata come “valore” fondante e presidiata da istituti formalmente costituiti
come i Consigli, i Collegi, o operativamente (oggi) come i Dipartimenti. I
processi reali si scostano anche da tali involucri, falsificandone il
significato.
3.
L’uso integrato e pervasivo delle TIC nella didattica
destruttura/ristruttura sia il lavoro diretto dei docenti e degli studenti, sia
le fasi che lo precedono e lo seguono.
Anche se si adottano stili tradizionali nel lavoro didattico diretto, le
tecnologie modificano i processi a monte e a valle.
Anche limitandosi ad utilizzare una LIM come “cattedra digitale” (e dunque
mantenendosi al “livello zero” delle potenzialità delle TIC) rimane il fatto che
la “lezione” (i suoi materiali preparatori, il suo svolgimento in situazione,
gli esercizi svolti dagli studenti, le “interrogazioni”) può essere memorizzata
sui supporti digitali, resa disponibile in ogni momento, fruibile a più riprese,
sia collettivamente, sia individualmente dai singoli studenti, sia nell’ambiente
scolastico, sia nelle fasi domestiche del lavoro di studio individuale.
Uno strumento che potenzia il lavoro di “programmazione” del docente, ma che
rende permanentemente interrogabile dallo studente ciò che si è svolto in
classe, in “quella” ora di lezione.
Altrove ho indicato tutto ciò con i termini, forse impropri di front teaching/front
learning back teaching/back learning.
Naturalmente tali effetti sono moltiplicati e producono veri e propri salti di
qualità se si riferiscono ad un uso evoluto e più appropriato delle TIC.
E’ per esempio sufficiente sagomare opportunamente una “rete di classe” dedicata
(una piattaforma Moodle, per esempio, ma anche un semplice e-group, non - si
faccia attenzione!! - a strumenti non controllabili come FaceBook) e il lavoro
didattico realmente erogato in classe si dilata nel tempo e nello spazio,
accompagnando sia il lavoro di programmazione dei docenti sia il lavoro di
apprendimento degli studenti, la loro collaborazione, l’interrogazione anche
fuori dai tempi specifici della scuola, gli approfondimenti che nascono dai
dubbi, dalle domande di chiarimento.
Ho osservato sul campo esperienze più evolute nelle quali addirittura le “prove
ufficiali” (compiti in classe ecc..) viaggiavano sulla rete di classe con
opportune decrittazioni per salvaguardarne l’individualizzazione e il responso
valutativo
Ovviamente tutto ciò si accompagna con interrogativi radicali e ai quali è
difficile fornire risposte certe. Se non la considerazione che ad essi non ci si
può ne tanto meno potrà sottrarre.
Per esempio quali problematiche in termini di “tempi di lavoro” del docente si
aprono con la sua potenzialmente inesauribile “reperibilità telematica”.
Ma anche quali sono le condizioni d’uso degli strumenti delle TIC nelle
famiglie.
Il PC e la rete sono disponibili, in certe situazioni, in oltre il 90% delle
famiglie (specie le più giovani e dunque con figli nella fascia dell’obbligo),
anche se l’uso è spesso, ahimè, legato ai videogiochi, alle chat, ai social
network, anche da parte dei genitori.
Il che significa però porre il problema fondamentale: quale politica perseguire
per la diffusione sociale, per il potenziamento della rete (la banda larga!!?),
per la “formazione” non solo dei “cuccioli”. Politica scolastica, politica
economica, politica culturale e costume sociale sono qui questioni che si
intrecciano.
L’ambiente, come in biologia, è l’insieme integrato di spazio, tempo, popolazioni e relazioni tra esse. Così è anche per la scuola. L’impulso innovativo che proviene dalla tecnologia investe tutte queste dimensioni. In particolare
1.
Sono del tutto evidenti, anche nelle esperienze
parziali di questi anni, le contraddizioni che emergono tra una efficace
esplorazione delle potenzialità tecnologiche e le sequenze operative che sono
tradizionali della scuola.
Le sequenze disciplinari (e i loro pesi specifici preordinati da programmi o
indicazioni che dir si voglia), le cadenze temporali (le ore di lezione),
ambientali (l’aula come platea ordinata rivolta al palcoscenico della cattedra),
le ripartizioni della popolazioni (le classi come contenitori ordinati e
separati) appartengono ad un modello organizzativo nel quale la scuola era
“pensata” (in particolare i livelli secondari) prima ancora che strutturata,
come la “fabbrica” dell’istruzione.
Con una metafora si potrebbe sostenere che la segmentazione e
sequenzializzazione delle fasi di lavoro appartiene ad un paradigma tayloristico
(un taylorismo “imperfetto”) appropriato ad altra tecnologia ed a altro
“prodotto”. Se si vuole ad un modello “amministrativo” di ispirazione weberiana.
Inutile aggiungere che tale modello organizzativo è isomorfo ad un modello
tassonomico del lavoro docente, con tutto ciò che comporta: modalità di
reclutamento e selezione, orari e durate del lavoro, modalità di erogazione,
gerarchie formali e implicite, mercato del lavoro interno all’organizzazione,
responsabilità individuali e collettive, e… protezione sindacale.
2.
Il “flusso del prodotto” e le sue sequenze e
ripartizioni in questo modello organizzativo (come in quello tayloristico usato
come metafora) informa di sé lo spazio in cui fluisce. Pensiamo all’edificio
scolastico tradizionale (e che ancora è attuale in tanta parte delle nostre
scuole): corridoi, sequenze di aule che vi si affacciano una appresso all’altra
e sostanzialmente tutte eguali (una stanza, banchi disposti più o meno
ordinatamente, cattedra e lavagna, digitale o meno..); alcuni di questi
“contenitori” vengono “specializzati” (i laboratori) e corrispondono a
“particolari segmenti” del flusso di produzione.
La descrizione è un poco forzata: sono diverse le esperienze che tentano di
superare tale “ambiente” e costituiscono esempi disponibili a imprese
alternative (si vedano sul sito dell’INDIRE). Ma è utile per enucleare alcuni
corollari che indicano altrettante ipotesi di ristrutturazione/riconversione.
La “classe” come “unità di ripartizione” della popolazione scolastica ha un
riflesso fondamentale sotto il profilo psicologico. Un dispositivo
amministrativo (utile per definire organici, orari, incarichi…) si configura nel
lavoro di apprendimento e insegnamento come una sorta di “contenitore
amniotico”, costruendo appartenenze, fidelizzazioni, identificazioni, senza
alcuna base che non sia quella della procedura da cui nasce.
La consapevolezza della problematicità della cosa è testimoniata “per contrario”
dalla disinvoltura con la quale si parla di “gruppo classe”. Non c’è bisogno di
complesse interrogazioni alla psicologia dell’organizzazione per affermare che
la “classe” (così intesa) non è “un gruppo” (di lavoro… di apprendimento..
ecc..). Naturalmente un buon docente tenterà di trasformarla in quella direzione
(a volte disperatamente..). Ma per quanto lodevoli possano essere tali tentativi
(e a volte raggiungono il risultato) essi sono tanto più faticosi e frustranti,
quanto più si collocano ex post rispetto ad un dispositivo fondativo
amministrativo e dunque non segnato da tale preoccupazione/obiettivo.
Insomma: un “grappolo” di questioni psicologiche e relazionali fondamentali nei
processi collettivi di apprendimento viene “appeso” ad una gruccia
amministrativa sulla base di un modello standardizzato al quale si riconduce il
lavoro di insegnamento apprendimento.
La “gruppalità”, soprattutto nelle prime fasi di apprendimento, le prime
esperienze di “noità”, dovrebbero essere ad assetto variabile, collegandosi a
caratteri individuali, aspirazioni, abilità e bisogni, soggettivamente ed
oggettivamente diversificati. Richiederebbe cioè una “clinica” (nel senso di
attenzione e cura, non di medicalizzazione e di ricovero) da esercitarsi ex ante
ed in divenire. E ciò è tanto più rilevante quanto più si diversifica la stessa
popolazione scolastica che, nelle prime fasi interessa per fortuna la totalità
dell’universo generazionale corrispondente.
L’effetto ex post di tale distorsione ha una buona testimonianza nella estrema
variabilità dei risultati di apprendimento tra classe e classe anche all’interno
della medesima scuola (si guardi alla propria esperienza professionale se non si
vogliono accreditare i risultati delle rilevazioni INVALSI che pure danno
all’osservazione il conforto della misura quantitativa).
Una scuola senza classi è possibile (si vedano esempi rintracciabili sul sito
INDIRE citato); ma ciò comporta necessariamente una riconversione radicale degli
spazi scolastici e la distinzione fondamentale tra lo strumento amministrativo
utile a gestire le quantità e il modello organizzativo che deve garantire “le
qualità”.
3.
Tutto ciò è vero “a prescindere” dall’uso e dalla
integrazione delle tecnologie nella didattica. Ma certamente le esperienze
legate a quest’ultimo hanno il valore, come già si è detto, di una lente di
ingrandimento che porta in primo piano elementi critici di fondo della nostra
organizzazione scolastica.
Per proseguire la metafora utilizzata in precedenza, una assennata integrazione
tra tecnologie e processi di apprendimento e insegnamento, evidenzia i limiti di
fondo del tradizionale modello tayloristico, di fronte alla problematiche di
insegnamento e apprendimento nella scuola odierna.
Il suo possibile superamento ci propone (come nell’impresa) la suggestione di
un modello “toyotista”.
Il flusso del prodotto non è affidato a sequenze separate e parcellizzate ma a
nucleo di lavoro collettivo, responsabile del prodotto finale, in grado di
ripartirsi in autonomia tempi e sequenze e vincolato a risultati di qualità.
”L’isola” invece della “catena”.
Naturalmente quali implicazioni estese (dalla classificazione del lavoro, alla
sua qualità e quantità, alle responsabilità personali e collettive) abbia
l’esplorazione di quello che metaforicamente chiamo “toyotismo” nella scuola è
impresa non semplice.
Basti pensare a questioni come le classi di concorso, i tempi di lavoro dei
docenti, le cattedre, gli “organici”… insomma l’intera “incastellatura formale”
del lavoro scolastico, e la possibile declinazione di un parametro di
“flessibilità”.
Ma occorre affrontarla e risolutamente come “disegno consapevole”, prima che sia
la “forza delle cose” ad imporla.
L’espansione e la pervasività delle TIC sono infatti largamente indipendenti
dalle scelte e dalla azione della scuola: investono, sia pure con velocità
differenziate gli ambienti esterni ad essa, quelli famigliari innanzi tutto.
Modificano comportamenti, psicologie, sensibilità, attese, che rifluiscono nella
scuola e che pongono ad essa il compito fondamentale di rielaborarli. Di fornire
ad essi una “significazione” che non può provenire dagli ambienti in cui essi si
sviluppano “spontaneamente” (uso il termine spontaneo per pura comodità:
sappiano tutti che poco vi è di spontaneo in tale sviluppo).
Nè la famiglia, nè il contesto sociale garantiscono un “carattere pedagogico” a
tale sviluppo “spontaneo: anzi, più spesso la loro azione è anti pedagogica.
Il rischio per una scuola che non assuma tali problemi entro un disegno
consapevole è quello di subire le tecnologie come “una rivoluzione passiva” (per
dirla con Gramsci).
Segnalo solamente e con grande preoccupazione la faglia che si delinea tra
queste prospettive e le modalità con le quali si continua a discutere per
esempio di edilizia scolastica, o di orari di lavoro dei docenti, o di
definizione degli organici e di modelli di classificazione del lavoro
scolastico, e finanche dello stesso valore della collegialità
Tecnologie e investimento in istruzione
Anche rispetto a tale problematica uso lo sviluppo potenziale delle TIC nella didattica come una lente di ingrandimento posta su problemi preesistenti e caratteristici della nostra politica scolastica, in questo caso la politica di spesa.