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“La libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione” G. Gaber
(25.10.2013)
Elementi per una critica dell'ideologia digitale
Enrico
Manera
Il recente libro Contro il colonialismo
digitale di Roberto Casati è un’ottima occasione per affrontare il
cambiamento epocale che riguarda nei nostri anni la lettoscrittura e in
particolare gli effetti di questo nell'educazione e nell'insegnamento (http://doppiozero.com/materiali/speciali/contro-il-colonialismo-digitale-una-risposta).
Casati, filosofo e
direttore di
ricerca del
Centre
National de la Recherche Scientifique (CNRS) all'Institut
Nicod, evita la sterile alternativa tra
«rifiuto luddistico» e «adorazione messianica» delle tecnologie, muovendo dal
presupposto che si tratta di negoziare con l’innovazione digitale e
sull’educazione a fronte di un paesaggio umano, cognitivo e sociale rapidamente
mutevole. Un paesaggio che la scuola non pare in grado di cogliere per la
rigidità della sua struttura e la scarsità delle risorse e che il resto degli
agenti istituzionali mostrano di non aver intenzione reale di disciplinare o
cambiare. Ma proprio questa resistenza della scuola, potrebbe essere in realtà
un’opportunità per evitare una frettolosa trasmigrazione di tutto il cartaceo al
digitale, prima che ne siano stati previsti il calcolo effetti/benefici.
Prima di tutto la lettura di testi in formato digitale e su supporti diversi dal libro cartaceo, la grande novità degli ultimi anni, viene valutata come un furto: «Non si sono aperti nuovi orizzonti per la lettura dei testi in un nuovo formato; questa lettura è stata invece rubata». IPad e realtà analoghe sono ecosistemi nuovi che hanno successo, perché tra le altre cose, possono supportare anche lettura: l’e-book appare dunque non una trasformazione del libro ma una tra le tante metamorfosi dei formati comunicativi, in un contesto – qui vedo il principale problema per l’età dello sviluppo - di concorrenza tra applicazioni e contenuti per l'economia dell'attenzione. Un contesto sfavorevole in particolar modo per la lettura e la scrittura saggistica, in cui l'attenzione è continuamente sollecitata altrove, e disincentivante per una pratica di studio che richiede educazione all’autodisciplina. Continuo a pensare che gli ambienti digitali formativi non debbano ricerca ciò che è “carino” per gli studenti e non debbano mutuare il loro design dal mondo dei video-games.
Da studioso di scienze cognitive, tra l’altro particolarmente attivo nel mondo digitale e non sospetto di passatismo ideologico, Casati sostiene, a partire dai dati presenti, che il libro di carta presenta grandi vantaggi di natura cognitiva che continuano a essere insuperabili: linearità per agevolare la comprensione, spazio visivo stabile frontoparallelo, isolamento rispetto alla competizione per l'attenzione, profondità verticale per la gestione sinottica di contenuti, stoccaggio di informazioni che agevola la memoria.
Il successo clamoroso dell'iPad, dei tablet e della multimedialità va ascritto dunque a tutto il resto, non ultimo il potente incantamento di una riuscitissima campagna di branding, piuttosto che non alla facilità di lettura; ovvero alla possibilità di comunicare, connettersi con altri, ricevere informazioni, giocare, fruire e condividere musica e video e altro, caratteristiche che – sia chiaro - ne fanno oggetti meravigliosi per il tempo libero e di grande di ausilio anche per la didattica e la ricerca, ma che possono diventare cognitivamente controproducenti se vengono intesi come lo strumento unico di lettura e come panacea per l'educazione del Terzo millennio. La competizione del testo cartaceo con le altre realtà compresenti non può che vedere in prospettiva la lettoscrittura risultare nettamente sconfitta.
«Per questo l’idea che l’iPad e succedanei siano “il libro del futuro” e se ne auspichi l’introduzione in tutte le scuole va considerata con grandissima cautela: [...] l’iPad è lo spazio meno protetto di tutti, dato che crea una situazione in cui mentre leggi un testo sei a un click di distanza da letteralmente milioni di app e video potenzialmente più interessanti o comunque meno faticosi da visionare, e di messaggi della rete sociale sempre molto urgenti e appetitosi.»
Nella mia esperienza di insegnante, oltre alla strisciante guerra quotidiana con cellulari e iPhone, accade che quando si lavora in classe con i portatili (che però non tutti hanno) o in laboratorio di informatica (che però funziona poco e male) molti studenti stanno facendo altro, che si tratti della pagina Facebook o del video cult del momento. Si riproduce dunque rapidamente il problema della vigilanza/prevenzione della distrazione dietro l'angolo, che oltretutto gli studenti non avvertono come tale e considerano una nevrosi personale di vecchi dinosauri retrogradi.
In ogni caso: ci sono 31 milioni e mezzo di italiani che non leggono neanche un libro all'anno secondo i dati dell'Associazione italiana e editori; se bambini e bambine leggono molto, dopo i 14 anni la lettura lascia il posto all'uso di internet. A leggere sono pochi, Casati ci ricorda che il rapporto con i libri e con la lettura è un dato che deriva dalla famiglia: «i bambini e i ragazzi che leggono libri sono soprattutto quelli che crescono in un ambiente ricco di libri e i cui genitori (in particolare le madri) leggono». Poi capita che si perdano pure quei lettori. Conviene avere sempre in mente un dato elementare, ipocritamente ignorato dal senso comune in un paese sempre profondamente classista:
«i risultati scolastici sono correlati con il censo o con il grado di istruzione dei genitori (grado di istruzione che spesso dipende a sua volta dal censo); chi riesce bene a scuola è chi proviene da un ambiente socioculturale elevato, e sono queste persone che hanno peraltro più disponibilità di computer e accesso a internet. La disponibilità di protesi digitali è una spia della condizione sociale e non una ragione del successo scolastico».
Ancora: studi Ocse, spesso citati da De Mauro, affermano che la multimedialità ha effetti positivi sul rendimento scolastico solo con soggetti che abbiano buona padronanza della lingua veicolare e delle competenze matematiche di base. Altrimenti peggiora la situazione. Il che spiega perché molti «nativi digitali» siano in realtà spesso incapaci di compiere ricerche minime di fronte a una mole di dati che già i motori di ricerca hanno filtrato per un utente già ‘profilato’ e che l'incapacità critica fa sembrare tutti uguali e di pari significatività.
Tra i meriti del libro c'è proprio la critica della nozione di «nativo digitale» e di «mutazione antropologica», che hanno avuto una certa fortuna nella pubblicistica a partire da Prensky, Digital Natives, Digital Immigrants, 2001 e in Italia Ferri, Nativi digitali, 2011. (http://www.youtube.com/watch?v=hYSxvwtdKso).
A partire dai (pochi) studi sull'argomento «non abbiamo alcuna ragione di pensare che esista un’intelligenza digitale specifica»; le competenze specifiche dei nativi digitali si ridurrebbero ad abilità cognitive binarie come l'utilizzazione di alternative in spazio digitale o il tracciare percorsi in paesaggi virtuali. Siamo di fronte alla iper-sopravvalutazione di alcune pratiche minime che certamente hanno a che fare con l'intelligenza, ma in maniera estremamente limitata con l'educazione e la cultura; e invece per stare dietro a un 'nuovo' paradigma cognitivo, che tutti hanno abbracciato per non sembrare arretrati o per giustificare la crisi del mondo scuola, siamo finiti a progettare percorsi Lim basati su modelli di videogiochi e in ambiente grafico sciatto e non accogliente.
Anche l'altro fattore della presunta diversità
di intelligenza degli studenti, il multitasking deve essere demitizzato.
È falso che l’«attenzione cosciente» possa essere rivolta
simultaneamente a più attività che richiedono attivazione di ordine semantico:
quello che avviene in ambiente digitale è più sovente un «“task switching”»,
simile allo zapping per la fruizione televisiva o al surfing di sito in sito, in
cui si può eccellere senza che la propria dotazione cognitiva e il successo
scolastico abbiano alcun beneficio. Quando chiediamo agli studenti di descrivere
le condizioni e i tempi di studio riceviamo descrizioni desolanti di tempi
continuamente frammentati tra cellulari, computer acceso e fisso su Facebook,
televisori (anche uno per stanza, minimo due). Studiare per molti significa
leggere il manuale in queste condizioni. Quando poi si parla con i genitori si
scopre che anche i momenti del pasto e le altre attività comuni sono sempre
fatte con l'occhio allo smart phone; le serate in famiglia vengono descritte
come vicende di televisori, telefonate e rispettive pagine Facebook.
«Gli studenti devono poter lavorare senza distrazioni e l’insegnante ha bisogno
dell’attenzione degli studenti per capire se sta facendo bene», sintetizza
Casati perorando la necessità della scuola come spazio protetto, in cui
sia protetto lo spazio per la costruzione delle pratiche cognitive, attraverso
contenuti anche difficili ma di cui si abbiano le condizioni di accesso. Tutto
questo implica che il compito istituzionale della scuola sia di presidiare lo
spazio e il tempo della lettura, per tutto quello che da essa deriva. Da qui il
fatto che per una volta la pachidermica capacità reattiva della scuola potrebbe
non essere uno svantaggio.
Si tratta di distinguere nettamente l'accesso
all’informazione, rispetto al quale il digitale è una risorsa eccezionale
e potentissima, e l’accesso alla conoscenza, processo più complesso che
implica attività quali studio, sperimentazione, dimostrazione, esercizio,
padroneggiamento, che nelle retoriche del sapere digitale scompaiono o
non si capisce come possano essere sviluppate, in assenza di lavoro, impegno,
travaglio e anzi nella presentazione di uno scenario idilliaco e ludico
di autoedificazione.
«Se non esiste un dato sulla “mutazione antropologica”, il problema che la
scuola deve affrontare non è quello di adattarsi a fantomatici nuovi tipi di
intelligenza, ma di fare in modo che l’intelligenza e la cultura possano
sbocciare e svilupparsi in un contesto in cui la dispersione rende
difficile questa missione». La scuola deve dunque, oltre a supportare
queste situazioni, il più possibile agevolare quelle problematiche e ad ogni
livello deve porre come prioritaria l'educazione all'uso critico dei media a
partire dalla propria specificità se si vuole antistorica, che vuol dire
saper scrivere a mano, usare una lavagna di ardesia, un quaderno, un manuale, un
libro, un atlante; insieme ai corrispettivi digitali.
E laddove l'ecosistema digitale tende a essere fagocitato dalla logiche del
mercato, la scuola dovrebbe essere in grado di opporre una garbata resistenza a
favore del non utile e del non economico, della bellezza e della meraviglia, che
sono poi le cose che ci piacciono nei mondi digitali che apprezziamo venendo da
quelli precedenti e che molti studenti non conosceranno mai.
Due parole sulla pars costruens, quella che più ci sta a cuore e che deve informare le nostre pratiche didattiche in una versione attuale della ricerca-azione e in senso costruttivista: l'idea base è di rifunzionalizzare le tecnologie rispetto alla finalità per cui sono state pensate, «usandole in modo diverso da quello immaginato dai loro progettisti e produttori, liberandole quindi dalla sciatteria progettuale, ed evitando al tempo stesso di soccombere a interessi economici poco trasparenti». Casati propone un «microtutorato verticale» per cui studenti di scuole superiori potrebbero seguire via chat/sms attività di studenti più piccoli in alcuni orari prestabiliti; un «mese della lettura» in cui si legge, semplicemente insieme e poi ognuno presenta un report del proprio lavoro; blog di classe per assistere l’insegnamento e condividere gli spazi in rete abbattendo la parete tra contenuti ‘alti’ e ‘bassi’; l’invito a non usare Wikipedia ma a scrivere voci di Wikipedia; senza dimenticare biblioteche scolastiche «ricche e libere, aperte ai genitori», che siano spazi di lavoro personalizzati. Il cambiamento, che va progettato e sostenuto, dovrebbe essere in questa direzione.