Direzione didattica di Pavone Canavese

NUOVO CORSO: materiali e documenti della politica scolastica della legislatura attuale


16.08.2010

Competenze spendibili e istruzione secondaria
di Stefano Stefanel

 

       In Italia esiste un problema di competenze della popolazione e questo problema è diventato una vera emergenza nazionale. Tra le competenze quelle più pericolosamente in fase calante sono quelle linguistiche e l’assenza, tra i giovani, di competenze linguistiche li taglierà inevitabilmente fuori dai settori lavorativi più interessanti e remunerativi. Le competenze linguistiche cui mi riferisco non sono solo quelle relative all’italiano, ma anche quelle relative alle lingue comunitarie, ai linguaggi specialistici anche non verbali, ai codici complessi decifrabili solo linguisticamente. Se non abbiamo competenze non siamo competitivi, se non abbiamo competenze linguistiche la nostra competitività è fortemente limitata.

       Una parte consistente della classe docente italiana respinge il concetto di “competitività” del “Sistema Italia” nel momento in cui lo si rapporta alla scuola. Secondo questa parte di docenti, ripeto, fortemente maggioritaria, la scuola italiana non deve essere “competitiva”. Già da sola questa distinzione dimostra come la competenza linguistica in Italia si sia fermata ad un certo punto anche a livelli piuttosto alti, perché si può essere anche d’accordo che le scuole non debbano essere “competitive tra loro”, ma non si può concedere a nessuno che la competizione globale non ci riguardi e che dunque dalle nostre scuole non debbano uscire alunni competenti e competitivi.

       Su questi argomenti mi sono espresso pubblicamente qualche tempo fa (Ricerca e sviluppo. L’Europa e la scuola italiana, 27 luglio e Sono nato pronto, 29 luglio sempre su www.educationduepuntozero.it, e Cercasi tecnici disperatamente, su www.edscuola.it del 26 luglio 2010). Sullo stesso argomento segnalo l’interessante articolo di Maurizio Tiriticco (Un curricolo per la competenza linguistica, www.edscuola.it, 7 agosto 2010) e la risposta che l’amico Pasquale D’Avolio ha voluto darmi.

 Ho ricevuto molti commenti privatamente ai miei interventi via e-mail o facebook e tutti vertevano su due concetti di fondo:

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      Sono friulano, vivo e lavoro in Friuli Venezia Giulia e dunque potrei anche dire: “Ma perché non fate come noi?”, visti gli esiti delle rilevazioni Ocse-Pisa e Invalsi degli ultimi tempi, che sono state commentate con inusuale risalto sui mezzi di informazione di massa. Non lo faccio in primo luogo perché credo che anche il Friuli Venezia Giulia possa migliorarsi e molto, ma, soprattutto, perché per commentare le rilevazioni nazionali e internazionali bisogna perlomeno avere davanti interlocutori che le prendano sul serio.

    Le scuole italiane prendono sul serio le rilevazioni nazionali o internazionali? Le scuole italiane pensano di essere uno dei punti più deboli del “Sistema Italia” o pensano che l’Italia non funziona e invece la scuola sì? L’elusione di queste domande rende fragile il dibattito, anche perché la competenza linguistica serve a leggere la letteratura, ma anche la realtà e non è detto che la stessa competenza allenata a scuola possa essere utilizzata per tutte e due le cose. Per cui magari siamo all’avanguardia nella conoscenza e competenza adolescenziale di Ariosto, Boccacio, Pirandello, Verga e D’Annunzio, ma magari un po’ meno all’avanguardia sull’utilizzo veicolare della lingua italiana per comprendere un report dell’Istat, dell’Invalsi, dell’Ocse-Pisa. Serve conoscere Verga per capire cosa dice l’Ocse-Pisa? Forse sì, non lo. Certo è che se si considera la lettura dei report internazionali inutile bisogna continuare con dosi massicce di Pirandello e D’Annunzio somministrate agli adolescenti. Sono anch’io convinto che troppa Lady Gaga non aiuti, ma sono anche convinto che la letteratura italiana non sia proprio questo grande e fondamentale strumento per penetrare la lingua italiana e il mondo che ci circonda. Se nei Licei è ovvio che la si studi, non vedo perché negli Istituti tecnici e professionali non possa cedere il passo ad un italiano più operativo ed essenziale. Mi sposterei per mia natura verso le competenze, lasciando l’accumulo di conoscenze al desiderio di sapere di ognuno. E’ un’idea che mi porto dietro da quasi quarant'anni, balenatami in testa dunque nel 1970 e mai più abbandonata.

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Una volta si parlava di Weltanschauung, termine tedesco che unisce Welt (Mondo), con an-schauen (guardare dal di fuori, guardare da un punto di vista). La parola tedesca si può tradurre sia con “visione del mondo”, sia con “ideologia”, anche se in questo momento storico in Italia la parola ideologia non è che voglia dire molto. L’insegnante di una classe, il consiglio di classe, il collegio docenti, un istituto intero sono davvero capaci di leggere il mondo partendo dalla propria esperienza didattica e professionale, cioè dalla propria Weltanschauung? Se la risposta è sì non è comprensibile come il sistema scolastico venga accusato di non funzionare, visto che tutti i soggetti che ho citato poco sopra si autorappresentano sempre come positivi. Se la risposta è invece “no” allora bisogna modificare in fretta il meccanismo di certificazione e sviluppo delle nostre competenze per far sì che queste portino a una maggiore competitività dei nostri ragazzi.

     Credo che in questo momento in Italia sia difficilissimo ragionare sulla scuola perché si scambia la quantità con la qualità. La logica dell’attuale Governo è quella dei tagli e si dà per scontato che dietro ai tagli non ci sia una politica scolastica ben precisa. Chi si lamenta dei tagli e del loro esito negativo sulla scuola non accetta però di soffermarsi a spiegare perché la scuola senza tagli degli ultimi vent’anni abbia dato esiti così disastrosi. Anche se credo che una fetta fortemente maggioritaria di docenti ancora oggi direbbe che la scuola funziona, basta lasciarla fare da sola. D’altronde non si sente sempre parlare di “riforme necessarie, ma non queste”, di “decisioni prese sulla pelle dei lavoratori, che non sono stati nemmeno ascoltati”? In realtà i docenti hanno sempre e solo detto “no” a qualsiasi cambiamento non estensivo, col risultato che le scuole più deboli e con maggiore dispersione (Istituti tecnici e professionali) erano anche quelle col tempo scuola più lungo, soluzione sconsigliata da tutti i pedagogisti e da tutti gli analisti internazionali. Anche qui però bisogna fare un’altra domanda: i pedagogisti e gli analisti internazionali ci capiscono qualcosa o nessuno può sapere più di quanto sanno i nostri docenti?

 

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      Un ulteriore ragionamento porta a distinguere tra competenze linguistiche di base e competenze linguistiche evolute. Chi ascolta qualche dibattito alla televisione sa bene cosa ci si può fare con una competenza linguistica evoluta, ma sa anche che l’italiano quando parla tende a perdersi in periodi sospesi o a sviluppare una consequenzialità incompleta. Davvero si pensa che non sarebbe utile che a scuola si imparasse a parlare bene, chiaramente e in modo conciso? L’argomentazione è importante sui due fronti distinti del contenuto e della forma, ma nel cicaleccio prevale la confusione. Quando poi ci spostiamo sul settore tecnico e professionale spesso ci troviamo davanti ad una comunicazione allarmante nella sua pochezza e imprecisione. Massimo specialismo e massima banalità molto spesso si confondono all’interno di stereotipi scientifici che spesso nascondono ignoranze profonde.

     Nella società le competenze si acquisiscono anche per prassi e per esperienza, non solo per teoria. Perché la scuola non può fare questo? Perché i quindicenni italiani devono essere schiacciati tra Lady Gaga e Gabriele D’Annunzio? Non può esistere un principio di realtà intermedio anche per i meno bravi e meritevoli, per quelli insomma che vogliono una vita dignitosa e che hanno qualcosa da spendere, ma non quello che altri più dotati possono spendere? Credo si debba semplificare tutto e comprendere che dietro la logica dei tagli c’è un’idea di scuola più snella che potrebbe anche funzionare. Soprattutto se dall’altra parte ci si arrocca su saperi obsoleti tramandati attraverso conoscenze stantie.

 

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