Direzione didattica di Pavone Canavese

[torna alla rubrica] [home page]

LAVAGNA SULLO SCHERMO
a cura di Paola Tarino

Seconda serie: sguardi infantili dai film di Amir Naderi

Locandine del film Il Corridore

Passando in rassegna gli innumerevoli frammenti che vanno ad incastonare i fotogrammi congelati in queste lavagne, mi sono più volte soffermata a contemplare gli sguardi dei bambini che numerosi popolano i film. Certi occhi tornavano con insistenza: quelli dei bambini iraniani. Capaci di bucare lo schermo, esplorati ed indagati, i loro visi s'imponevano al punto da sbigottire il mio sguardo impreparato a restituir loro la - per innocenza - più adeguata attenzione (persino un maestro come Akira Kurosawa ammise di esserne contagiato), quasi da farmi avanzare l'ipotesi di una particolare propensione da parte di registi come Kiarostami, Naderi, Makhmalbaf (padre e figlia) e Panahi a riprendere i bambini in modo così realistico e al contempo poetico.
Occhi bambini che scrutano paesaggi recanti segni di distruzione, colgono la bellezza di una natura che sembra sfuggire ai ritagli delle inquadrature e interrogano il mondo degli adulti con domande insistenti alla ricerca di tutte le possibili risposte agli eventi incrociati nel loro girovagare: i soli che si lasciano fotografare, mentre quelli dei grandi, la cui presenza è spesso rivelata da voci sempre più fuori campo, sono destinati a finire sempre più fuori scena.
Si direbbe che questo sguardo infantile diventi il mezzo per guardare il mondo, soprattutto il mondo dominato dalla mentalità degli adulti: il grado zero (per usare un'espressione cara a Roland Barthes) di questa visione continua nella seconda puntata dedicata alla filmografia iraniana, che stavolta prende in considerazione le prime due opere di
AMIR NADERI.

 

FILMOGRAFIA

   - Il corridore, 1985
   - Acqua, vento, sabbia, 1989
   - Manhattan by Numbers, 1993
   - A B C ... Manhattan, 1996

Da ormai diversi anni Naderi ha scelto di abitare negli Stati Uniti, dove ha girato i suoi ultimi due lungometraggi.

"Il viaggio è stata una componente essenziale nella mia vita sin da ragazzino. Sono nato a Abadar, un piccolo porto, poi sono arrivato a Teheran e infine volevo allargare ancora i miei confini. Non è stata una fuga da censure o simili. Semplicemente sentivo che un ciclo si era concluso. Restando in Iran rischiavo di non rinnovarmi, di continuare a fare sempre lo stesso film. Ho voluto sperimentare altri modi produttivi, anche se non escludo di tornare nel mio paese. Non subito però. Prima devo chiudere questa nuova fase"

Il regista Amir Naderi

 

Davandeh ("The runner" - "Il corridore", Iran, 1985)

Ne "Il corridore" ci troviamo di fronte allo sguardo disarmato e disarmante di un altro bambino iraniano, fratello d'occhi e gesti dei compagni di strada che popolano i film di Kiarostami, di cui condivide la cocciutaggine e la tenacia nel portare avanti gli impegni. Per certi atteggiamenti Amir (impersonato da Majid Nirumand) ricorda persino l'Iqbal di Cinzia Th Torrini: un medesimo destino di lavoro minorile li accomuna e li apparenta alla schiera di bambini sfruttati e abbandonati a se stessi, di cui l'immaginario cinematografico si è occupato fin dai tempi di Sciuscià. Non a caso i riferimenti alle opere di Rossellini sembrano essere "sfrontatamente" evidenti nello scavo del reale, nella fisicità delle immagini, nello stremarsi del bambino (e forse del cinema stesso), la cui lunga corsa finale per raggiungere un blocco di ghiaccio prima che si sciolga in mezzo al fuoco resta impressa negli occhi dello spettatore: un freddo ed inusuale riferimento metaforico all'allora guerra in corso tra l'Iran e l'Iraq, riscaldato dal moto della corsa, dal sudore che imperla la fronte e dal calore della sfida.
Ed è proprio la corsa di questo bambino, irrequieto e sempre in movimento, a dare un originale ritmo spazio-temporale all'intera narrazione di Naderi: gambe che corrono, piedi che accelerano, polvere che si alza, mentre la strada avanza, sembra non finire mai e al contempo non porta altrove!

La corsa di Amir verso il ghiaccio

Amir vorrebbe andarsene dal porto di Abadar, lasciare le macerie del suo paese ed una vita di stenti segnata dalla nascita: sogna di potersi imbarcare su una delle tante petroliere che attraversano il Golfo, a cui ogni giorno urla la sua disperazione dalla scogliera che ne riporta l'eco (l'uso del sonoro affidato alle grida a squarciagola - spesso ripetute come uno scioglilingua - è davvero esemplare), immagina di volare in alto, correndo più del vento, per raggiungere uno degli aerei da guerra, che partono dalla base vicina, osservata dall'altra parte dei reticolati. Nel frattempo deve sbarcare il lunario e procurarsi da vivere. Orfano di guerra, senza parenti, come rifugio e casa ha a disposizione una carcassa di nave fatiscente ed arrugginita; si unisce ad un gruppo di giovani, che come lui vivono in strada, impegnandosi in occupazioni precarie. Trascina un sacco tra le macerie alla ricerca di qualcosa da rivendere, ma sono in tanti e si rischia sempre la lite per dividere bottini inesistenti; raccoglie in mare bottiglie vuote, aiutandosi con un pneumatico per restare a galla, ma il pericolo è in agguato, rappresentato dagli squali che infestano quel braccio di mare; vende acqua fresca ai lavoratori, ma qualcuno ne approfitta e cerca di rubargli il ghiaccio appena comprato; si improvvisa allora lustrascarpe, sciuscià, per l'esercito della marina straniera che staziona nei bar del porto, ma anche qui viene accusato di essere il ladro di un accendino che, probabilmente, il proprietario ubriaco ha finito con lo smarrire. In ogni occasione Amir si difende, pronto a battersi fino allo spasimo, non sopporta di subire un torto e si ribella come può.
Resta memorabile la sequenza in cui rincorre il ladro de
lla sua lastra di ghiaccio e, una volta raggiuntolo, afferra il blocco e continua a correre, soddisfatto, nonostante le mani stiano gelando, l'energia venga meno, il fiato manchi. Corre, corre, corre come una gazzella, intanto il ghiaccio si scioglie, diventa nulla. All'invisibilità di quell'immagine, al freddo che paralizza persino il nostro sguardo, fa da contraltare la forza mentale di questo bambino: una scena simbolica, giocata sulla semplicità e sulla fisicità degli elementi, che saranno i protagonisti assoluti del film successivo di Naderi.
Man mano il tempo trascorre in espedienti di vario genere, vediamo Amir giocare
tra le vie del porto con i suoi amici di sventura: le sfide sulla pietraia, i giri con le biciclette affittate per poche ore, le corse a piedi lungo i binari per raggiungere i treni merci che si avvicendano. Ogni pretesto è buono per divertirsi, per intraprendere una gara, per arrivare primi al traguardo e dimostrare a se stessi "fino a quanto si può correre!", mettendosi costantemente alla prova.
Le poche volte che la macchina da presa inquadra Amir da fermo, in primo piano, è solo per congelarne lo sguardo muto ed indagatore, svelando così i retroscena di una guerra che resta sempre invisibile, sommersa, non documentata dal film: scruta una vecchia piegata dal dolore, inginocchiata in mezzo ad una strada, che si rifiuta di procedere e sarà sollevata di peso per non finire investita, oppure accompagna la camminata di un invalido che procede malfermo sulle stampelle
, due figure che fungono da contraltare alla sua corsa attraverso la loro impossibilità di correre, due reazioni diverse ad una stessa guerra, quella di chi non può sottrarvisi anche per età e quella di chi cerca scampo di corsa. Altrimenti sono campi lunghi ad abbracciare la vastità della spiaggia, la desolazione del paesaggio, la solitudine del bambino che procede incuriosito in mezzo alla folla o si lascia assalire dalla rabbia, allorché si stanca di guardare solo le figure delle riviste, comprate a caro prezzo e a costo di digiunare, dedicate agli aerei che tanto ama. Allora le fa a pezzi tra i singhiozzi, e, proprio attraverso quel gesto catartico, matura la sua decisione di iscriversi a scuola per imparare a leggere e a scrivere.
"Ho lavorato. Nessuno mi ha portato prima a scuola, ora vengo da solo. Voglio imparare ad ogni costo", dirà al maestro che gli domanda stupito dove sia stato fino a quel giorno. Ad Amir verrà concessa l'iscrizione, ma solo alla scuola serale: vuoi perché troppo grande per frequentare la prima classe, vuoi per consentirgli di mantenersi, lavorando al mattino. E da quel momento acquisterà forza, fiducia in se stesso, trasformerà le sue urla alle navi in scansioni continue delle ventidue lettere che costituiscono l'alfabeto in lingua farsi (per poterlo imparare a memoria, servendosi solo della ripetizione orale)
e nell'epilogo riuscirà a vincere per la prima volta la sua gara, sfidando i compagni nella prova del ghiaccio.
Seppur esausto e stremato dalla fatica, l'ultima inquadratura lo mostra per la prima volta sorridente e felice: le sue mani riescono a raggiungere quel che resta del ghiaccio, non ancora sciolto dal calore dell'incendio che circonda il set, sollevano quel cubetto come fosse un trofeo, se lo passano sulla fronte, ne fanno scaturire qualche goccia per dissetarsi, poi lo passano ad altre mani amiche, desiderose anch'esse di trovare beneficio e ristoro.
Quale altra immagine potrà mai condensare con la stessa efficacia visiva e la medesima semplicità rivelatrice degli elementi simbolici usati (le fiamme, il ghiaccio) il destino di una nazione? Quella iraniana, in questo caso, ma la valenza metaforica potrebbe adattarsi anche ad altri paesi ai margini della corsa neo-liberista.

Ab, bâd, khâk ("Acqua, vento, sabbia", Iran, 1989)

Stavolta gli elementi fisici cari a Naderi costituiscono persino la materia di cui è fatto il titolo di questo film, noto anche come "Acqua, vento e terra".
Il corridore, 4 anni dopo. Majid Nirumand, lo stesso attore del film precedente, è alla ricerca della sua famiglia in un villaggio, abbandonato in seguito allo strano ed improvviso prosciugarsi di un lago naturale.
Un camioncino, seppur impedito dalla tormenta di sabbia, si è fatto strada tra le dune e lo scarica in compagnia di una capra. La voce fuori campo del ragazzo ci informa che la sua partenza dal villaggio risale a due anni prima, quando il padre l'ha mandato a cercare lavoro in una città lontana: "Gli mandavo dei soldi di tanto in tanto. Poi ho saputo che il lago si era prosciugato e ho deciso di tornare a cercare la mia famiglia, di cui non ho notizie".
I registi iraniani amano molto partire dall'idea di mettere al centro della loro invenzione filmica individui in marcia alla ricerca di qualcuno momentaneamente assente, fuori-scena, e non importa mai sapere se quel qualcuno, per cui si compie molta strada e si superano diverse prove lungo il cammino, verrà alla fine trovato o meno … Il film si interrompe prima, lasciando allo spettatore la libertà di decidere l'esito di così tanto affannarsi di questi interminabili "road-movie". Si direbbe interessi la ricerca in sé e per sé, ancora meglio se giocata all'interno di set labirinto anche per gli spettatori: per un attimo, disorientata, non comprendo infatti se sto uscendo da un set di Kiarostami per entrare in quello creato da Naderi, o viceversa. Ma il bello di questo mio spaesamento, che tende, in apparenza e durante la visione, ad affratellare idealmente le filmografie iraniane tra loro, sta nel ritrovarne invece, a posteriori e ripensandoci, una spiccata e differente identità culturale.
L'intera opera è una sinfonia sonora e visiva. La colonna sonora è ancora più originale del "basso continuo" delle urla di Amir nel film precedente: pochissimo uso del parlato, costante presenza del vento di sabbia che sibila senza sosta, qualche rumore, il latrare dei cani, il rullare dei tamburi dei beduini che passano e poi lo sprigionarsi unico, davvero forte e titanico, della Quinta Sinfonia di Beethoven nel finale dirompente, vitale, pur nell'illusorietà del gesto del ragazzo (non miracoloso, perché svelato nella sua tragica visionarietà) che riuscirà a far sgorgare l'acqua in quel deserto primitivo di vento, sabbia e terra. Lo scenario è invece apocalittico: mentre seguiamo Majid nella sua ricerca affannosa la macchina da presa affida a campi lunghissimi il compito di immortalare carcasse di animali morti (bovini, capre e pesci agonizzanti), mostrare barche che galleggiano sulle dune, scrutare una natura arida, indagata nelle crepe profonde di un terreno sempre più rinsecchito, come se avesse voltato la sua faccia all'indietro nel tempo e nello spazio, per tornare ai primordi di una qualche nuova epoca preistorica. Antidiluviano: prima del diluvio scaturito, che forse è davvero immagine di un'epoca precedente, titanic-a.
In quella desolazione, in quell'incubo sempre uguale a se stesso, che mette i brividi addosso al solo pensiero di trovarsi dall'altra parte dello schermo, al posto di Majid, prende forma la poesia di Naderi, che si alimenta di pochi gesti, compiuti con semplicità, buon senso, spirito di solidarietà. Il ragazzo affida in custodia la capra, che aveva comprato con l'intenzione di donarla alla famiglia, ad un vecchio che gentilmente lo informa del fatto che chi "aveva ancora gambe buone" si è messo subito in marcia abbandonando la zona del lago fantasma; trova un pozzo con un po' d'acqua e, dopo aver fatto diversi chilometri in direzione opposta a quella di partenza, ne porta un secchio a due anziani rifugiati sotto ad una tenda; soccorre un uomo rimasto intrappolato dalla bufera che ha ricoperto di sabbia l'ingresso della sua capanna; si imbatte in una piccola abbandonata in lacrime da una tribù di passaggio: non sa cosa farne, a chi darla, ma la prende ugualmente in braccio, la stringe a sé con tenerezza per proteggerla dal vento lungo il cammino, torna ancora una volta indietro verso il pozzo, la disseta e poi si ingegna per tentare di affidarla ad un nuovo gruppo di viaggiatori. Ce la farà, dopo molti tentativi miseramente falliti.
Non manca di essere generoso anche con gli animali: si preoccupa che la sua capra non muoia disidratata, cerca di nutrire e dissetare una mucca, trova un recipiente con due pesciolini che boccheggiano, lo rovescia per sbaglio ed allora per la prima volta si mette a correre (anche lui) fino al pozzo per cercare di salvarli ad ogni costo. Ma anche il pozzo si prosciuga.
Cammina e cammina, si direbbe che Majid giri in tondo, tanto che ad un certo punto pare tornare sui suoi passi, ossia all'inizio del suo viaggio: di questo non si è certi perché il paesaggio uniforme ripete se stesso nella propria medesima desolazione.
Ed è qui che nasce il gesto, altrettanto sudato e faticoso come quello di Amir che arriva a stringere il ghiaccio, ma stavolta assume addirittura connotati epici: trova una pala e si mette a scavare alla ricerca dell'acqua, come fosse rintanata al centro della terra. Scava una buca, ne scava un'altra, sembra non arrendersi mai, anche se lo vediamo più volte stramazzare sfinito a terra. Riprende a scavare, si mette ad urlare come Amir per farsi forza, ormai sparisce nella vasta buca che ha creato. Riusciamo a vedere solo il suo braccio che si alza e si abbassa ritmicamente in montaggio alternato al latrare famelico di cani assatanati, pronti a farsi guerra tra loro, prima di dilaniare la carcassa di una mucca putrescente, di cui si dividono le interiora.
Il disgustante banchetto totemico ha fine solo con l'improvviso sgorgare dell'acqua: un tonfo forte, una cascata sonora introdotta dal crescere della Quinta Sinfonia di Beethoven …

Il pozzo si è svuotato

"In un paesaggio apocalittico sempre spazzato da tempeste di sabbia, Naderi contrappone la morte e la desolazione alla speranza che emerge in un finale visionario, in cui pesci e acqua scaturiscono dalle dune: un cinema di sensazioni, fisico e immediato, che non si preoccupa di raccontare una storia (anche se i singoli episodi possono avere un'intensità lancinante), ma si affida a ritmi visivi che evitano ogni monotonia (Naderi, montatore, conosce sia l'arte del piano sequenza sia quella del montaggio alla Ejzenštejn). Senza distinguere tra documentario e astrazione, realismo e fantastico: Herzog si inchinerebbe ammirato. E Naderi riesce anche a usare la Quinta di Beethoven come se fosse stata composta per l'occasione. Girato in condizioni proibitive nell'arco di tre mesi, e bloccato per tre anni dagli ayatollah: forse perché mostrava la miseria?" (Paolo Mereghetti, "Il Mereghetti, Dizionario dei film 2000", Baldini & Castoldi, Milano, 1999, pag. 23)

Cosa c'entrano i ragazzini allora? La corsa, urlando ai margini della vita, continua, solo grazie alla loro presenza.

Da A B C...Manhattan          

   LAVAGNA PRECEDENTE

La ventunesima puntata ha preso in rassegna il film di Takeshi Kitano
"L'infanzia di Kikujiro"