FILMOGRAFIA
- Il
corridore, 1985
- Acqua, vento, sabbia, 1989
- Manhattan by Numbers, 1993
- A B C ... Manhattan, 1996
Da ormai diversi anni Naderi ha scelto di abitare negli Stati
Uniti, dove ha girato i suoi ultimi due lungometraggi.
"Il viaggio è stata una componente essenziale nella mia
vita sin da ragazzino. Sono nato a Abadar, un piccolo porto, poi sono arrivato a Teheran e
infine volevo allargare ancora i miei confini. Non è stata una fuga da censure o simili.
Semplicemente sentivo che un ciclo si era concluso. Restando in Iran rischiavo di non
rinnovarmi, di continuare a fare sempre lo stesso film. Ho voluto sperimentare altri modi
produttivi, anche se non escludo di tornare nel mio paese. Non subito però. Prima devo
chiudere questa nuova fase" |
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Davandeh ("The runner" - "Il corridore", Iran, 1985)
Ne
"Il corridore" ci troviamo di fronte allo sguardo disarmato e disarmante
di un altro bambino iraniano, fratello d'occhi e gesti dei compagni di strada che popolano
i film di Kiarostami, di cui condivide la cocciutaggine e la tenacia nel portare avanti gli
impegni. Per certi atteggiamenti Amir (impersonato da Majid Nirumand) ricorda persino l'Iqbal di Cinzia Th Torrini: un medesimo
destino di lavoro minorile li accomuna e li apparenta alla schiera di bambini sfruttati e
abbandonati a se stessi, di cui l'immaginario cinematografico si è occupato fin dai tempi
di Sciuscià. Non a caso i riferimenti alle opere di Rossellini sembrano essere
"sfrontatamente" evidenti nello scavo del reale, nella fisicità delle immagini,
nello stremarsi del bambino (e forse del cinema stesso), la cui lunga corsa finale per
raggiungere un blocco di ghiaccio prima che si sciolga in mezzo al fuoco resta impressa
negli occhi dello spettatore: un freddo ed inusuale riferimento metaforico all'allora
guerra in corso tra l'Iran e l'Iraq, riscaldato dal moto della corsa, dal sudore che
imperla la fronte e dal calore della sfida.
Ed è proprio la corsa di questo bambino, irrequieto e sempre in movimento, a dare un
originale ritmo spazio-temporale all'intera narrazione di Naderi: gambe che corrono, piedi
che accelerano, polvere che si alza, mentre la strada avanza, sembra non finire mai e al
contempo non porta altrove!
Amir vorrebbe andarsene dal
porto di Abadar, lasciare le macerie del suo paese ed una vita di stenti segnata dalla
nascita: sogna di potersi imbarcare su una delle tante petroliere che attraversano il
Golfo, a cui ogni giorno urla la sua disperazione dalla scogliera che ne riporta l'eco
(l'uso del sonoro affidato alle grida a squarciagola - spesso ripetute come uno
scioglilingua - è davvero esemplare), immagina di volare in alto, correndo più del
vento, per raggiungere uno degli aerei da guerra, che partono dalla base vicina, osservata
dall'altra parte dei reticolati. Nel frattempo deve sbarcare il lunario e procurarsi da
vivere. Orfano di guerra, senza parenti, come rifugio e casa ha a disposizione una
carcassa di nave fatiscente ed arrugginita; si unisce ad un gruppo di giovani, che come lui vivono in
strada, impegnandosi in occupazioni precarie. Trascina un sacco tra le macerie alla
ricerca di qualcosa da rivendere, ma sono in tanti e si rischia sempre la lite per dividere bottini
inesistenti; raccoglie in mare bottiglie vuote, aiutandosi con un pneumatico per restare a
galla, ma il pericolo è in agguato, rappresentato dagli squali che infestano quel braccio
di mare; vende acqua fresca ai lavoratori, ma qualcuno ne approfitta e cerca di rubargli
il ghiaccio appena comprato; si improvvisa allora lustrascarpe, sciuscià, per
l'esercito della marina straniera che staziona nei bar del porto, ma anche qui viene
accusato di essere il ladro di un accendino che, probabilmente, il proprietario ubriaco ha
finito con lo smarrire. In ogni occasione Amir si difende, pronto a battersi fino allo
spasimo, non sopporta di subire un torto e si ribella come può.
Resta memorabile la sequenza in cui rincorre il ladro della sua lastra di ghiaccio e, una volta raggiuntolo, afferra il blocco e continua a
correre, soddisfatto, nonostante le mani stiano gelando, l'energia venga meno, il fiato
manchi. Corre, corre, corre come una gazzella, intanto il ghiaccio si scioglie, diventa
nulla. All'invisibilità di quell'immagine, al freddo che paralizza persino il nostro
sguardo, fa da contraltare la forza mentale di questo bambino: una scena simbolica,
giocata sulla semplicità e sulla fisicità degli elementi, che saranno i protagonisti
assoluti del film successivo di Naderi.
Man mano il tempo trascorre in espedienti di vario genere, vediamo Amir giocare tra le vie del porto con
i suoi amici di sventura: le sfide sulla pietraia, i giri con le biciclette affittate per
poche ore, le corse a piedi lungo i binari per raggiungere i treni merci che si
avvicendano. Ogni pretesto è buono per divertirsi, per intraprendere una gara, per
arrivare primi al traguardo e dimostrare a se stessi "fino a quanto si può
correre!", mettendosi costantemente alla prova.
Le poche volte che la macchina da presa inquadra Amir da fermo, in primo piano, è solo
per congelarne lo sguardo muto ed indagatore, svelando così i retroscena di una guerra
che resta sempre invisibile, sommersa, non documentata dal film: scruta una vecchia
piegata dal dolore, inginocchiata in mezzo ad una strada, che si rifiuta di procedere e
sarà sollevata di peso per non finire investita, oppure accompagna la camminata di un
invalido che procede malfermo sulle stampelle, due figure che
fungono da contraltare alla sua corsa attraverso la loro impossibilità di correre, due
reazioni diverse ad una stessa guerra, quella di chi non può sottrarvisi anche per età e
quella di chi cerca scampo di corsa.
Altrimenti sono campi lunghi ad abbracciare la vastità della spiaggia, la desolazione del
paesaggio, la solitudine del bambino che procede incuriosito in mezzo alla folla o si
lascia assalire dalla rabbia, allorché si stanca di guardare solo le figure delle
riviste, comprate a caro prezzo e a costo di digiunare, dedicate agli aerei che tanto ama.
Allora le fa a pezzi tra i singhiozzi, e, proprio attraverso quel gesto catartico, matura
la sua decisione di iscriversi a scuola per imparare a leggere e a scrivere.
"Ho lavorato. Nessuno mi ha portato prima a scuola, ora vengo da solo.
Voglio imparare ad ogni costo", dirà al maestro che gli domanda stupito dove sia
stato fino a quel giorno. Ad Amir verrà concessa l'iscrizione, ma solo alla scuola
serale: vuoi perché troppo grande per frequentare la prima classe, vuoi per consentirgli
di mantenersi, lavorando al mattino. E da quel momento acquisterà forza, fiducia in se
stesso, trasformerà le sue urla alle navi in scansioni continue delle ventidue lettere
che costituiscono l'alfabeto in lingua farsi (per poterlo imparare a memoria, servendosi
solo della ripetizione orale) e nell'epilogo riuscirà a vincere per la prima volta
la sua gara, sfidando i compagni nella prova del ghiaccio.
Seppur esausto e stremato dalla fatica, l'ultima inquadratura lo mostra per la prima volta
sorridente e felice: le sue mani riescono a raggiungere quel che resta del ghiaccio, non
ancora sciolto dal calore dell'incendio che circonda il set, sollevano quel cubetto come
fosse un trofeo, se lo passano sulla fronte, ne fanno scaturire qualche goccia per
dissetarsi, poi lo passano ad altre mani amiche, desiderose anch'esse di trovare beneficio
e ristoro.
Quale altra immagine potrà mai condensare con la stessa efficacia visiva e la medesima
semplicità rivelatrice degli elementi simbolici usati (le fiamme, il ghiaccio) il destino
di una nazione? Quella iraniana, in questo caso, ma la valenza metaforica potrebbe
adattarsi anche ad altri paesi ai margini della corsa neo-liberista. |
Ab, bâd, khâk
("Acqua, vento, sabbia", Iran, 1989)
Stavolta gli elementi fisici cari a Naderi
costituiscono persino la materia di cui è fatto il titolo di questo film, noto anche come
"Acqua, vento e terra".
Il corridore, 4 anni dopo. Majid Nirumand, lo stesso attore del film precedente, è alla
ricerca della sua famiglia in un villaggio, abbandonato in seguito allo strano ed
improvviso prosciugarsi di un lago naturale.
Un camioncino, seppur impedito dalla tormenta di sabbia, si è fatto strada tra le dune e
lo scarica in compagnia di una capra. La voce fuori campo del ragazzo ci informa che la
sua partenza dal villaggio risale a due anni prima, quando il padre l'ha mandato a cercare
lavoro in una città lontana: "Gli mandavo dei soldi di tanto in tanto. Poi ho
saputo che il lago si era prosciugato e ho deciso di tornare a cercare la mia famiglia, di
cui non ho notizie".
I registi iraniani amano molto partire dall'idea di mettere al centro della loro
invenzione filmica individui in marcia alla ricerca di qualcuno momentaneamente assente,
fuori-scena, e non importa mai sapere se quel qualcuno, per cui si compie molta strada e
si superano diverse prove lungo il cammino, verrà alla fine trovato o meno
Il film
si interrompe prima, lasciando allo spettatore la libertà di decidere l'esito di così
tanto affannarsi di questi interminabili "road-movie". Si direbbe interessi la
ricerca in sé e per sé, ancora meglio se giocata all'interno di set labirinto anche per
gli spettatori: per un attimo, disorientata, non comprendo infatti se sto uscendo da un
set di Kiarostami per entrare in quello creato da Naderi, o viceversa. Ma il bello di
questo mio spaesamento, che tende, in apparenza e durante la visione, ad affratellare
idealmente le filmografie iraniane tra loro, sta nel ritrovarne invece, a posteriori e
ripensandoci, una spiccata e differente identità culturale.
L'intera opera è una sinfonia sonora e visiva. La colonna sonora è ancora più originale
del "basso continuo" delle urla di Amir nel film precedente: pochissimo uso del
parlato, costante presenza del vento di sabbia che sibila senza sosta, qualche rumore, il
latrare dei cani, il rullare dei tamburi dei beduini che passano e poi lo sprigionarsi
unico, davvero forte e titanico, della Quinta Sinfonia di Beethoven nel finale dirompente,
vitale, pur nell'illusorietà del gesto del ragazzo (non miracoloso, perché svelato nella
sua tragica visionarietà) che riuscirà a far sgorgare l'acqua in quel deserto primitivo
di vento, sabbia e terra. Lo scenario è invece apocalittico: mentre seguiamo Majid nella
sua ricerca affannosa la macchina da presa affida a campi lunghissimi il compito di
immortalare carcasse di animali morti (bovini, capre e pesci agonizzanti), mostrare barche
che galleggiano sulle dune, scrutare una natura arida, indagata nelle crepe profonde di un
terreno sempre più rinsecchito, come se avesse voltato la sua faccia all'indietro nel
tempo e nello spazio, per tornare ai primordi di una qualche nuova epoca preistorica.
Antidiluviano: prima del diluvio scaturito, che forse è davvero immagine di un'epoca
precedente, titanic-a.
In quella desolazione, in quell'incubo sempre uguale a se stesso, che mette i brividi
addosso al solo pensiero di trovarsi dall'altra parte dello schermo, al posto di Majid,
prende forma la poesia di Naderi, che si alimenta di pochi gesti, compiuti con
semplicità, buon senso, spirito di solidarietà. Il ragazzo affida in custodia la capra,
che aveva comprato con l'intenzione di donarla alla famiglia, ad un vecchio che
gentilmente lo informa del fatto che chi "aveva ancora gambe buone" si è
messo subito in marcia abbandonando la zona del lago fantasma; trova un pozzo con un po'
d'acqua e, dopo aver fatto diversi chilometri in direzione opposta a quella di partenza,
ne porta un secchio a due anziani rifugiati sotto ad una tenda; soccorre un uomo rimasto
intrappolato dalla bufera che ha ricoperto di sabbia l'ingresso della sua capanna; si
imbatte in una piccola abbandonata in lacrime da una tribù di passaggio: non sa cosa
farne, a chi darla, ma la prende ugualmente in braccio, la stringe a sé con tenerezza per
proteggerla dal vento lungo il cammino, torna ancora una volta indietro verso il pozzo, la
disseta e poi si ingegna per tentare di affidarla ad un nuovo gruppo di viaggiatori. Ce la
farà, dopo molti tentativi miseramente falliti.
Non manca di essere generoso anche con gli animali: si preoccupa che la sua capra non
muoia disidratata, cerca di nutrire e dissetare una mucca, trova un recipiente con due
pesciolini che boccheggiano, lo rovescia per sbaglio ed allora per la prima volta si mette
a correre (anche lui) fino al pozzo per cercare di salvarli ad ogni costo. Ma anche il
pozzo si prosciuga.
Cammina e cammina, si direbbe che Majid giri in tondo, tanto che ad un certo punto pare
tornare sui suoi passi, ossia all'inizio del suo viaggio: di questo non si è certi
perché il paesaggio uniforme ripete se stesso nella propria medesima desolazione.
Ed è qui che nasce il gesto, altrettanto sudato e faticoso come quello di Amir che arriva
a stringere il ghiaccio, ma stavolta assume addirittura connotati epici: trova una pala e
si mette a scavare alla ricerca dell'acqua, come fosse rintanata al centro della terra.
Scava una buca, ne scava un'altra, sembra non arrendersi mai, anche se lo vediamo più
volte stramazzare sfinito a terra. Riprende a scavare, si mette ad urlare come Amir per
farsi forza, ormai sparisce nella vasta buca che ha creato. Riusciamo a vedere solo il suo
braccio che si alza e si abbassa ritmicamente in montaggio alternato al latrare famelico
di cani assatanati, pronti a farsi guerra tra loro, prima di dilaniare la carcassa di una
mucca putrescente, di cui si dividono le interiora.
Il disgustante banchetto totemico ha fine solo con l'improvviso sgorgare dell'acqua: un
tonfo forte, una cascata sonora introdotta dal crescere della Quinta Sinfonia di Beethoven
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"In un paesaggio apocalittico sempre spazzato da tempeste di
sabbia, Naderi contrappone la morte e la desolazione alla speranza che emerge in un finale
visionario, in cui pesci e acqua scaturiscono dalle dune: un cinema di sensazioni, fisico
e immediato, che non si preoccupa di raccontare una storia (anche se i singoli episodi
possono avere un'intensità lancinante), ma si affida a ritmi visivi che evitano ogni
monotonia (Naderi, montatore, conosce sia l'arte del piano sequenza sia quella del
montaggio alla Ejzentejn). Senza distinguere tra documentario e astrazione, realismo
e fantastico: Herzog si inchinerebbe ammirato. E Naderi riesce anche a usare la Quinta di
Beethoven come se fosse stata composta per l'occasione. Girato in condizioni proibitive
nell'arco di tre mesi, e bloccato per tre anni dagli ayatollah: forse perché mostrava la
miseria?" (Paolo Mereghetti, "Il Mereghetti, Dizionario dei film 2000",
Baldini & Castoldi, Milano, 1999, pag. 23)
Cosa c'entrano i ragazzini allora? La corsa,
urlando ai margini della vita, continua, solo grazie alla loro presenza. |
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